Un viaggio filosofico letterario aspettando la Giornata Europea della Cultura Ebraica
Il prossimo 15 settembre si terrà, com’è già stato ampiamente diffuso dai media, ebraici e non, la ventesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica e sarà dedicata ai sogni. “Sogni. Una scala verso il cielo”, recita, infatti, la pagina web dell’UCEI destinata all’evento. Voglio partire proprio da questo titolo, di per sé già molto interessante, anche nei suoi dettagli più semplici. Non si allude, infatti, al “sogno”, al singolare, bensì alla pluralità dei sogni di cui è possibile rintracciare il percorso all’interno della millenaria vicenda del popolo ebraico, in una prospettiva caleidoscopica che tocca ogni possibile aspetto, disciplina o forma artistica.
Scrive, infatti, il presidente dell’UCEI, Noemi Di Segni: “Di sogni il popolo ebraico se ne intende”. Ed è una grande verità. Ne sono una testimonianza i sogni biblici, il Talmud, la mistica, fino ad arrivare al padre della psicanalisi Sigmund Freud.
Tuttavia, il bello della vicenda è che i sogni non sono unidirezionali. Al contrario, essi vanno letti anche in maniera differente, ad esempio, “come speranze per il futuro: quelle che i padri hanno per i figli, quelle delle tante comunità e famiglie ebraiche costrette a fuggire, nel corso della storia, in cerca di accoglienza e prospettive, quelle che i fondatori del sionismo e poi i pionieri riposero nel ritorno degli ebrei nella patria atavica, Israele”. Nello stesso modo, il cielo che accoglie la scala di Giacobbe può essere interpretato tanto in senso letterale, come eterea dimora del divino, quanto a livello simbolico, in quanto meta ultima di ogni aspirazione dell’ebreo, anche la più concreta di tutte, vale a dire la creazione di uno Stato.
Riguardo quest’ultimo aspetto, è straordinario notare come il triplice nesso tra popolo, sogno e Terra d’Israele sia presente già nella Bibbia. Per rendersene conto basta rileggere il meraviglioso salmo 126, un pugno di versi dove il rientro in patria degli ebrei dall’esilio babilonese è celebrato con un’immagine esplicitamente legata all’ambito onirico:
Quando l’Eterno fece ritornare i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare
Non è un caso se questo verso ritornò sulla bocca di tutti ‒ leader politici e semplici cittadini ‒ nel giugno 1967, dopo la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni e la conquista della Città Vecchia di Gerusalemme. Le parole “ci sembrava di sognare” ben descrivono l’atmosfera estatica di quei giorni, quando gli ebrei ritornarono letteralmente a vedere Sion dopo quasi vent’anni di esilio forzato. Fu come un nuovo ritorno da Babilonia, un momento di gioia immensa, tanto grande perché ritenuto incredibile dopo una così lunga catena di sofferenze.
Al di là di ciò che il salmo esprime, è innegabile che la letteratura biblica rappresenti il punto di origine di ogni considerazione ebraica sul sogno. E non potrebbe essere il contrario. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che le Scritture sono gremite di sognatori, più o meno noti e non necessariamente ebrei (il re Avimelekh, ad esempio, che precede di un bel pezzo il Faraone con le sue spighe e le sue vacche magre/grasse). È nella Bibbia, infatti, che troviamo il primo tentativo d’interpretazione del fatto onirico. Ovviamente il protagonista dell’episodio non può che essere Giuseppe, baʻal ha-halomot, “colui che possiede i sogni”. Ai due ministri del faraone suoi compagni di cella, preoccupati di non avere a disposizione nessuno capace di interpretare i sogni che li avevano tormentati durante la notte, Giuseppe, infatti, risponde:
Le interpretazioni dei sogni non appartengono forse a Dio? Raccontatemi dunque!
Gli spunti che questo brano ci offre sono molti. Innanzitutto, esso specifica la necessità, anzi l’urgenza, di interpretare i sogni, i quali, come testimoniano anche i poemi omerici, possiedono una funzione comunicativa eccezionale, capace di esprimersi a un livello più profondo, non troppo distante da quello profetico, di cui rappresenta il gradino inferiore. Inoltre, le interpretazioni dei sogni ‒ e presumibilmente anche i sogni stessi ‒ sono un dono divino, implicano cioè una visione altra, superiore del reale. Infine, le diverse sorti dei protagonisti della vicenda provano come la natura di questi messaggi sia viva e concreta, un ponte teso verso l’immediato futuro di chi sogna.
Sulla stessa linea si muove anche il Talmud, che dedica ampio spazio al tema del sogno. È nel trattato di Berakhot che possiamo leggere, infatti, la famosa massima di rav Hisdà: “un sogno non interpretato è come una lettera che non letta”, la quale, in poche parole, riassume ogni narrazione biblica relativa al sogno e, nello stesso tempo, getta lo sguardo verso le evoluzioni successive.
Dobbiamo però fare attenzione a non limitarci al linguaggio formulare, per quanto ci possa apparire affascinante. Come sostiene Maria Luisa Mayer Modena in un saggio dedicato al sogno nella letteratura post-biblica, l’atteggiamento del Talmud al riguardo è spesso contraddittorio e sembra anticipare anche l’esistenza di un legame importante tra sogno e psiche, idea che, più tardi, sarà nuovamente valorizzata dalla dottrina chassidica, la quale desidera restituire l’uomo all’intima verità della dimensione onirica, nel preciso intento di svelargli gli accessi più reconditi del suo animo e, dunque, di ricondurlo a se stesso. Da Dio, insomma, si passa in qualche modo all’io.
È ovvio che l’opera rivoluzionaria di Freud abbia segnato un momento imprescindibile nella discussione sul sogno, allargando la propria area d’influenza anche in ambito artistico-letterario. Intere generazioni di scrittori hanno guardato al creatore della psicanalisi, spesso per descrivere in maniera minuziosa la dimensione interiore dei personaggi.
Se rivolgiamo lo sguardo all’Israele odierno, in particolare alla sua letteratura, osserviamo che gli autori contemporanei non sono stati da meno nella loro attenzione al mondo onirico. Prendiamo, ad esempio, Shemuel Yossef Agnon, uno dei maestri assoluti della letteratura ebraica moderna. Leggenda vuole che egli abbia più volte negato di aver letto le opere di Freud, sebbene, secondo gli specialisti, i suoi racconti e i romanzi suggeriscano il contrario. Nelle opere di Agnon si avverte chiaramente la fascinazione per la dimensione onirica, soprattutto nella straordinaria capacità di quest’ultima di conciliare gli opposti, eliminando le distinzioni che caratterizzano, invece, la realtà quotidiana. “Mirabili le vie del sogno, chi conosce i suoi sentieri?”, scrive Agnon nel racconto Nel fiore degli anni. Spesso quelli dei suoi personaggi sono sogni d’amore, incerti tra sopore e la veglia, simili al dolceamaro oscillare della protagonista femminile del Cantico dei Cantici.
Amos Oz e Abraham Ben Yehoshua, tra i più fedeli ammiratori dell’arte narrativa di Agnon, hanno abbracciato l’uso del sogno in maniera quasi entusiastica, soprattutto all’inizio delle loro carriere, quando lo stile di entrambi era chiaramente votato al simbolismo. Come dimenticare, ad esempio, le torbide visioni notturne di Hannah, la protagonista di uno dei romanzi più riusciti di Oz, Michael mio? I sogni della donna si muovono tra antichi ricordi d’infanzia e angosce presenti, tra eros e violenza, sullo sfondo di un conflitto storico-politico che s’identifica col dissidio interiore della protagonista. O, ancora, non possiamo tralasciare la persistenza dei sogni nei romanzi di Yehoshua, dove qua e là compare anche qualche ostinato interprete contemporaneo, come l’intrepida Hagit, tra i protagonisti de La sposa liberata.
La quotidianità ci insegna, però, che il contenuto dei nostri sogni non è necessariamente sereno, prendendo talvolta la forma dell’incubo o dell’inquietudine. Spesso il sogno si proietta, infatti, come un ponte tra i vivi e i morti, tra il regno della luce e quello delle tenebre, vale a dire due ambiti che, secondo la tradizione, andrebbero tenuti ben distinti e separati, al fine di evitare pericolose commistioni. Ad esempio, nella poesia ebraica della Shoah il sogno si configura come la sola dimensione possibile per vedere nuovamente chi è stato strappato alla vita. Così il dolore per le perdite affettive subite durante lo sterminio prende forma nell’incontro con i defunti, il quale permette a quanti non hanno vissuto direttamente le persecuzioni di elaborare sofferenze e sensi di colpa che la luce del giorno rende opprimenti e insopportabili. Uri Zvi Grinberg, Amir Gilboa, Oded Peled sono alcuni dei poeti che indugiano maggiormente sulla soglia tra reale e immaginato, sperimentando nel sonno ciò che sarebbe irrealizzabile nella veglia.
Alla luce di tutto questo, mi sembra che la celeberrima citazione di William Shakespeare (forse pure lui ebreo) “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” assuma tutt’altro significato. Sia essa vera o prodotto di un’invenzione letteraria, la vita dell’uomo è sogno perché effimera e inconsistente. Tuttavia, al tempo stesso essa è capace di produrre nello spazio della realtà, o nel più circoscritto e oscuro ambito del sé, imprese mirabolanti, incredibili evoluzioni dell’essere. Insomma, ogni cosa di cui i sogni possano colmarsi.