Contraddizioni e significati della festa più lieta d’autunno. Con qualche aneddoto piuttosto ilare
Sukkot, la Festa delle Capanne, l’ultima nella carrellata delle festività ebraiche autunnali e la più lunga: sette giorni in Israele e otto nella Diaspora. Insieme a Pesach e Shavuot, fa parte dei cosiddetti Shalosh Regalim, le tre feste durante le quali, all’epoca del Tempio, ogni buon ebreo doveva recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. La liturgia dà a Sukkot il nome di Zman simchatenu, il tempo della nostra gioia. Dopo “l’ansia da prestazione” di Rosh HaShanà (nuovo anno, buoni propositi, iscriversi in palestra, smettere di fumare, salvare il mondo) e la gravità di Yom Kippur, Sukkot arriva, cinque giorni dopo, insieme alla luna piena, davvero come una festa lieta, quasi spensierata, seppur – non meno delle ricorrenze precedenti – impregnata di significati profondi. Elemento centrale della festa è la sukkah, la “capanna” che deve essere costruita e abitata durante tutta la settimana: deve essere, secondo il Talmud (Sukkah 2:7), grande abbastanza per contenere la testa, la maggior parte del corpo e un tavolo (per le altre caratteristiche, si veda Rabbi Ronald H. Isaacs su My Jewish Learning). Vediamo alcuni dei suoi significati.
Le contraddizioni della sukkah e l’illusione della stabilità
Sukkot gioca sulla contraddizione di stabilità e precarietà: un riparo che resista al vento, ma che permetta il passaggio della pioggia e della luce, la visione del cielo e delle stelle; che protegga dal mondo esterno ma che sia pronto ad accogliere gli ushpizin, i sette ospiti d’onore – Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne, Giuseppe e Davide – che verranno in visita a turno, uno per notte. (Curiosità: alcune tradizioni affiancano agli ushpizim la controparte femminile, le ushpizot: Sara, Miriam, Debora, Anna, Abigail, Ulda. E c’è un sito a loro dedicato).
La sukkah è temporanea, ma per tutta la durata della festa ospita tutte le azioni importanti del quotidiano: mangiare, dormire, pregare, coltivare relazioni. È un luogo pubblico e visibile, poiché deve essere costruita all’esterno e nulla può frapporsi tra il suo tetto e il cielo; ma allo stesso tempo un luogo privato e intimo. È antica e moderna: le regole di costruzione sono inderogabili, ma a seconda del luogo in cui si trova potrebbe includere il riscaldamento o l’aria condizionata, il wifi, la musica, le più svariate decorazioni. E a proposito di decorazioni, David Kilimnick su Aish racconta una curiosità divertente: In Israele molti ornamenti, pare, nascono come decorazioni natalizie messe sul mercato per i cristiani, che dopo dicembre vanno in svendita. “Dopo Natale, tutte le lucine vanno in saldo e diventano ebraiche. Le zone più ultra-ortodosse fanno affari d’oro con quelle. Non che io sia particolarmente religioso, ma credo che qualcuno dovrebbe dire agli haredim che potrebbero festeggiare Sukkot senza tutto quell’armamentario da Babbo Natale”.
Le contraddizioni della sukkah, scrive Karen Wolfers Rapaport su The Jewish Woman servono ad aprire gli occhi sulle illusioni che governano la vita. “Siamo dipendenti dai nostri punti di riferimento: sicurezza psicologica, stipendio fisso, protezione dal crimine. Abiti, cibo, rifugio caldo. Questi elementi tangibili e fisici forniscono una protezione a cui teniamo molto. Ma la nostra tradizione distrugge le illusioni e va al cuore di ciò che può davvero proteggerci. Durante Sukkot, l’illusione viene processata, rotta e fatta nuova. Il tempo – estemporaneo e fragile – trascorso nella sukkah intensifica tutti gli aspetti dell’illusione e li mette a fuoco. La sukkah è il rimedio all’illusione della sicurezza fisica”.
Vedere la luce attraverso l’ombra
Una componente imprescindibile nella costruzione della sukkah è lo sechach, il materiale con cui deve essere fatto il tetto: deve essere di origine vegetale, provenire dalla terra ma non essere più legato a essa al momento dell’uso. Rami e fogliame di diverse specie (palma, pino, bambù, ecc) possono fungere da sechach, purché non appartengano più al loro albero al momento della costruzione (non è permesso “vincere facile” costruendo la sukkah sotto un albero che ha già le fronde in posizione particolarmente favorevole); non possono fare da sechach gli oggetti creati dall’uomo, anche se fatti di materiale naturale (ad esempio il legno o la carta), perché hanno subito una trasformazione che li ha snaturati, meno che mai i materiali come la plastica, l’alluminio o il vetro.
Tra il cielo e lo sechach nulla deve frapporsi, proprio come nel racconto biblico, dopo l’uscita dall’Egitto, nulla separava i rifugi temporanei del popolo ebraico dal cielo del deserto. Una bellissima riflessione sul significato dello sechach si trova alla fine di questo fresco e simpatico Lego-tutorial realizzato dallo scrittore, educatore e artista Evan Wolkestein.
In quattro minuti e in modo semplice e puntuale, Wolkestein illustra l’abc della festa. E conclude:
“Lo sechach deve essere sufficientemente rado per lasciare entrare la pioggia e consentire la visione delle stelle. E allo stesso tempo deve essere spesso quanto basta perché nella sukkah vi sia più ombra che luce. Una possibile interpretazione? La luce di Dio illumina il mondo e lo riempie di vita. Ma noi non possiamo guardare la luce direttamente, ci accecherebbe. Ci vogliono le nuvole, o lo sechach, per filtrare questa luce in una forma che possiamo apprezzare, comprendere e gestire. Forse l’idea è che nel nostro mondo non possiamo vedere Dio…ma possiamo vedere l’ombra di Dio. Negli atti di gentilezza. Negli atti di giustizia. Nel volto dell’altro”.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.