Hebraica
La sukkah, una casa volutamente disfunzionale

Analisi letteraria e filosofica del significato profondo del costruire (e vivere) la propria capanna. Un invito a esistere (e non solo a funzionare)

Non essendo ebrea, la mia familiarità con le feste ebraiche è soprattutto di origine letteraria: i romanzi che mi hanno insegnato la lingua mi hanno anche fornito le descrizioni che mancavano alla mia esperienza. Peraltro ogni tanto capita che le esperienze letterarie siano più intense di quelle concrete. Così, se nella vita reale la mia prima sukkà fu quella dell’albergo in cui pranzai la prima volta che, dopo anni che già studiavo la lingua, finalmente feci un viaggio in Israele, la mia prima, «vera» sukkà fu letteraria, e la incontrai solo qualche anno dopo traducendo, con Claudia Rosenzweig, Una storia comune (Adelphi 2002) di Shmuel Yosef Agnon (1888-1970), grandissimo scrittore a cui guardano come un maestro tutti gli autori israeliani contemporanei, e che nel 1966 ricevette il Nobel insieme alla poetessa Nelly Sachs. La descrizione della festa di Sukkot si estende per diverse pagine, di cui riporto qualche stralcio:
La sukkà è costruita in un bel posto, decorata con frutti e spighe. Il vento solleva i teli colorati e appaiono campi e orti. […] Quando Hershl posa lo sguardo sulla sukkà del suocero, lo spirito della festa lo pervade e lo riveste di gioia. Una sukkà così a Shibush non c’è. Shibush è affollata e le sue strade sono tortuose. Come un fardello caricato sulla gobba di un gobbo sono le sukkot di Shibush. […] I frutti che decorano la sukkà si spaccano da quanto sono maturi e l’anguria scavata in forma di lanterna, appesa a una catena di noci non ancora sgusciate, dondola qua e là. […] I cani abbaiano, ci sono ospiti in cortile. Dal loro modo di fare si vede che sono talmide chakhamim. Non respingono l’invito come negli altri giorni, ma bevono e mangiano per recitare la benedizione di chi siede nella sukkà, e sebbene alcuni poskim ritengano che si possa recitare tale benedizione anche senza assaggiare nulla, perché il fondamento del precetto è sedere nella sukkà, in ogni modo è meglio assaggiare qualcosa e recitare la benedizione. […] Il sole stava per tramontare e l’ombra della sukkà volgeva a oriente allungandosi sempre di più. Gli ospiti recitarono la benedizione e si alzarono, levarono gli occhi verso l’alto e dissero, una così bella festa, una così bella festa, quando Israel adempie alla volontà del Signore, Egli non turba le sue feste nemmeno fuori dalla sua Terra.
È vero che tanto idillio serve all’autore per costruire l’evoluzione successiva del romanzo, il cui protagonista, Hershl, costretto dai genitori ad abbandonare il suo amore giovanile per sposarsi con una donna che gli è indifferente, sta per scivolare nella follia, e tuttavia l’incanto di questa sukkà, nella prosa di Agnon che ricalca l’andamento della letteratura rabbinica, si rinnova per me a ogni lettura, e pazienza per i tormenti del povero Hershl.

Su che cosa si fondi tale incanto per me, che non solo non sono ebrea, ma nemmeno religiosa – e dunque mi volgo alla sukkà con uno sguardo da outsider – proverò a spiegarlo in queste righe. Dietro alla costruzione della sukkà c’è una fitta trama normativa di cui parltano i primi due capitoli del trattato omonimo del Talmud Babilonese, intitolato Sukkà, per l’appunto, a partire dal quale i poskim, i «decisori» citati nel brano di Agnon, hanno fissato le regole pratiche della sua costruzione. Scrive Rav Adin Steinsaltz, curatore dell’edizione del Talmud con testo a fronte in ebraico moderno: «Il precetto della Torah di sedere nella sukkà suscita immediatamente la domanda di principio: che cos’è una sukkà? È chiaro che la sukkà è diversa dalla casa, ma è necessario chiarire e definire tale differenza». Il passo successivo di questa indagine ontologica, sull’«essere» della sukkà, sarà, come sempre nel Talmud, l’indagine deontologica sul «dover essere»: quali caratteristiche deve avere per poter essere considerata kasher e permettere a chi vi siede di uscire d’obbligo? Questa speculazione giuridico-filosofica porta a identificare come punto nevralgico in cui si condensa l’essenza della sukkà – che deve essere una dimora temporanea – la copertura di frasche, skhakh, da cui prende il nome e che le fa da tetto. Ma, com’è noto, si tratta di una copertura che non è a prova di intemperie – nonostante la festa cada a ridosso dell’inizio della stagione piovosa – anche perché la sukkà va tassativamente costruita in un posto a cielo aperto, e non, per esempio, su un balcone riparato da quello sovrastante. Qui emerge in modo chiaro la differenza con la casa, che è per essenza «un tetto sulla testa», e la buona tenuta di quel tetto la distingue da un rudere.

La sukkà si presenta dunque come una casa volutamente disfunzionale, un’anti-casa, una negazione di quella funzione di riparo affidabile che è essenziale a ogni dimora, e tuttavia più importante e nobile della casa .
Il brano di Agnon e le pagine talmudiche mi sono tornate in mente quando mi sono imbattuta, pochi giorni fa, in un libriccino uscito di recente: Funzionare o esistere? (Vita e pensiero 2019), del filosofo e psicologo argentino Miguel Benasayag. Con grande sensibilità Benasayag fa il punto su un tema che da tempo è al centro del modo di vivere occidentale (e non solo) e che si appresta a diventare pervasivo con l’introduzione sempre più massiccia nella vita quotidiana delle forme più evolute di intelligenza artificiale, ossia di soggetti non umani che funzionano meglio di noi non solo sul piano «muscolare», come la nostra lavatrice, ma su un piano «mentale» raffinato, poiché riproducono con grande efficienza l’opera cognitiva dei nostri neuroni. Ciò di cui si interessa Benasayag non sono tanto i pericoli o i vantaggi del progresso tecnologico in sé, quanto la profonda penetrazione nelle nostre vite della metafora riduttiva del funzionamento – che ci viene dal contatto quotidiano con macchine capaci di lavorare a oltranza – a scapito della nozione di esistenza: «[…] i nostri corpi, le nostre vite, le nostre società non possono essere compresi attraverso la griglia utilitarista del funzionamento: le dimensioni dell’esistenza, le nostre esperienze di vita implicano processi molto più complessi» (p. 11). Come hanno scritto Lakoff e Johnson, le metafore non sono solo eleganti orpelli del discorso, ma strutture profonde che plasmano il nostro rapporto con la vita senza che ce ne rendiamo conto. La metafora del funzionamento si è dimostrata così pervasiva da avere un impatto non trascurabile sul nostro modo di concepire i nostri corpi (efficienti oppure no) e i nostri rapporti (che «funzionano» oppure no).

La struttura volutamente antifunzionalista della sukkà, sia essa esperita attraverso il rituale nel mondo concreto dell’esperienza religiosa in cui originariamente sorge, o filosoficamente attraverso la mediazione dei testi, si pone come un’alterità radicale rispetto al modo funzionalista di percepirci, si colloca – e ci ricolloca – sul piano dell’esistenza, in particolare di un’esistenza etica, nella quale ci riconosciamo incapaci di funzionare da soli come macchine, e bisognosi invece di esistere insieme agli altri, con i quali, durante Kippur, ci siamo appena riconciliati. Infatti, aperta verso il cielo e il trascendente attraverso gli spiragli della sua copertura di frasche, la sukkà è anche aperta verso il mondo, è luogo di ospitalità – i cui effetti spirituali, con una venatura comica, sono stati messi in scena da Gigi Dar nel film Ushpizin del 2004. Sei i suoi invitati più illustri sono, secondo la tradizione, le anime dei patriarchi, essa è spalancata a tutti gli ospiti e alla dimensione del discorso, alle parole di Torah. Ma anche alle parole di Benasayag che nelle ultime pagine del suo libro afferma: «Quest’opera non è altro che un appello a non soffocare i nostri disfunzionamenti. Perché da essi dipende la nostra esistenza, e l’esistenza in generale». Lo stesso appello ben si applica anche all’«opera» della sukkà.

Anna Linda Callow
Collaboratrice

Anna Linda Callow è laureata in lingue orientali. Ha insegnato lingua e letteratura ebraica per molti anni all’Università degli Studi di Milano, ha tradotto dall’ebraico e dallo yiddish per varie case editrici. Ha recentemente pubblicato il saggio La lingua che visse due volte (Garzanti 2019).


2 Commenti:

  1. Sono cattolica, ma le radici sono le stesse, mi piace molto leggere il significato di tradizioni ebraiche! Shabbat Shalom

  2. Je suis Miguel Benasayag et je voulais vous remercier pour les propos de cet article; hag sameaj et toda raba

    shalom

    Mijael


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