Che cos’è esattamente e perché è così poco nota
Dopo aver ragionato sulla Mishnà, occorre spiegare cosa sia la Toseftà [‘Aggiunta’ in aramaico], forse la più sconosciuta delle grandi fonti ebraiche che rientrano nella categoria religiosa di Torà orale. Se non sconosciuta, quasi. Eppure anch’essa è stata elaborata dai tannaim (i rabbini dei primi due secoli dell’era comune); condivide con il codice mishnico, oltre la datazione, soprattutto la struttura essendo a sua volta divisa in sei ordini e in una sessantina di trattati; è citata e data per nota dagli amoraim (i maestri del Talmud), soltanto è molto più estesa: nell’insieme è quattro volte più ampia della Mishnà, scritta essa pure in ebraico, seppur meno pulito e conciso di quello mishnico e con non pochi aramaismi e prestiti lessicali greci e latini. Essa è conservata sia in manoscritti (l’unico completo si trova a Vienna e risale alla fine del XIII secolo) sia in volumi a stampa – editio princeps a Venezia negli anni Venti del XVI secolo, proprio come il Talmud Bavli – e nelle edizioni successive del Bavli venne inserita ‘in folio’, in pagina, come il commento di Rashi.
La Toseftà non era dunque percepita come una sorella cadetta. La sua messa per iscritto fu a lungo attribuita allo stesso Judà haNassi e sin dalle origini venne pensata come un complemento della Mishnà, come una fonte halakhica autentica ed integrativa a scopo essenzialmente esplicativo. In un certo senso la Toseftà è il primo esteso commento alla Mishnà, vergato in uno stile letterario molto simile (e assai diverso dai ‘canovacci’ delle discussioni talmudiche successive). Oggi essa è divenuta un testo tecnico, per addetti ai lavori, ma un tempo non era certamente così. Un prima edizione critica è stata tentata nel 1882 in Germania, opera di Moses Samuel Zuckermandl sulla base di un manoscritto conservato a Erfurt. Essa fu ripresa dal grande talmudista Saul Lieberman, che a partire dal 1955 – all’apice del suo insegnamento al Jewish Theological Seminary – diede avvio a una nuova edizione, ma che non venne da lui completata. Lo studioso che ha compiuto l’impresa di una complessiva traduzione in lingua moderna – English, of course – è il rabbino Jacob Neusner. È apparsa a New York con ampie note e commenti in sei volumi tra il 1977 e il 1986.
Ciò detto, ma nishtanà? Ossia, in cosa si differenzia allora questa raccolta di halakhot e baraitot (leggi, norme, insegnamenti, spiegazioni) confluite nella Toseftà rispetto alla raccolta chiamata Mishnà? Secondo lo storico del diritto Peretz Segal, dell’università di Tel Aviv, la Toseftà tende a espandere i problemi e aggiungere nuovo materiale giuridico rispetto ai temi trattati nella Mishnà; essendo stata redatta qualche decennio dopo, raccoglie ovviamente norme successive e le specifica con i nomi dei trasmettitori; rispetto alla stesura mishnica dà versioni e fonti diverse; spesso offre già una prima serie di interpretazioni delle halakhot che intende così esplicitare e integrare. In conclusione, dice Segal: “Essa non va vista come una rivale della Mishnà o come una fonte in competizione con essa, quasi derivasse da una corrente rabbinica non riconosciuta da Judà haNassi: le due raccolte legali erano trattate entrambe come fonti di halakhà dagli ultimi maestri chiamati tannaim” (ma il primo codificatore mediavele, Al-Fasi non la considerava tale!).
Tutto chiaro allora? Per niente. Gli studiosi restano pieni di domande: la Toseftà che noi conosciamo oggi, basata sui manoscritti bassomedievali e sulle versioni a stampa, è la stessa conosciuta e citata dal Talmud, oppure è un’altra? È pensabile che l’attuale Mishnà sia già un estratto della Toseftà, ‘adattata’ in ambito babilonese e semplificata alla bisogna della diaspora (ma che ebbe più fortuna, come avvenuto anche per il Talmud che di quella diaspora porta il nome)? C’è poi chi ipotizzi che la Toseftà raccolga sì materiale tannaitico, ma sia stata assemblata addirittura in un epoca post-talmudica (ad es. Channok Albeq): ciò spiegherebbe la somiglianza con molti passaggi della ghemarà… Ma c’è pure, puntualmente, chi capovolge l’ipotesi e la colloca addirittura prima della nostra tradizionale Mishnà (es: Jacob Nachum Epstein parla di una proto-Toseftà). Posizioni intermedie sono sostenute da insigni talmudisti come Yaakov Elman e Shamma Friedman, il quale, docente anche a Bar Ilan, ha contribuito al dibattito con un recente studio sinottico, metodologicamente avvertito, dei “passi paralleli” nei due codici. Resta comunque difficile formulare una teoria generale e omnicomprensiva, data anche la grande differenza, su base comparativa, fra i trattati dei due codici legali. Persino Jacob Neusner ha espresso giudizi oscillanti tra le diverse tesi. Il filosofo Moshe Halbertal ha usato l’espressione ‘codice flessibile’ per definire la Mishnà… ma forse occorrebbe, qal wa-chomer – a maggior ragione – qualificare così proprio la Toseftà.
Sempre Halbertal, nel suo importante libro People of the Book (1997) dedicato ai temi del canone biblico-rabbinico dei testi sacri, ai metodi per renderli ‘parlanti’ ossia significativi, e infine all’autorità rabbinica che quei testi fondano (e da cui circolarmente sono fondati), avanza la tesi per cui Toseftà e Mishnà sono in vero due corpora giuridici elaborati a partire da due diverse idee di tradizione, da due concezioni addirittura divergenti di libertà esegetica e di creatività ermeneutica ai fini di stabilire l’halakhà. I due codici, insomma, rifletterebbero due diverse strategie ebraiche per fissare le norme comportamentali. Altro che mera complementarità!
Come hanno mostrato gli studiosi israeliani Chaim Shapira e Menachem Fisch, la Toseftà incarnerebbe una filosofia dell’halakhà più rigida e tradizionalista, in quanto ligia alle ‘tradizioni ricevute’, letteralmente ‘udite’ (shmu‘ot, lezioni halakhiche apprese dal proprio rav), dinanzi alle quali non si applica il metodo ‘democratico’ della votazione, ossia il criterio della maggioranza; ad esso si ricorre, ai livelli istituzionalmente alti e a ciò deputati, soltanto quando mancano le tradizioni ricevute. La Mishnà, invece, sarebbe un testo più aperto – flessibile, come dice Halbertal – perché più disponibile a discutere l’halakhà anche in presenza di una decisione precedente, e pronta a soppesare i ragionamenti dei maestri successivi, e ad accoglierli se convincenti. Stando a questi studi, la questione non è la centralità dell’halakhà (che è fuori discussione) ma le modalità con cui si addiviene a decisioni halakhiche. Esse erano oggetto di dibattito e codificazione diversificata già ai tempi dei ‘padri del mondo’, ossia di Hillel e Shammai. Il primato di Hillel, secondo i maestri, gli è stato riconosciuto perché era disposto a cambiare opinione e ad abbracciare, se validi, gli argomenti di Shammai. Come non si separano e tantomeno si contrappongo Hillel e Shammai, anzi una scuola integra e illumina l’altra, così non si possno separare e opporre l’un l’altra Mishnà e Toseftà.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma