Se dolore e memoria fanno rima con donna: le vicende al femminile di un piccolo nucleo famigliare, tra la Yugoslavia di Tito e l’Israele attuale. La recensione
Sembrano i versi di una poesia strana quelli che compongono il titolo del romanzo di David Grossman, La vita gioca con me, edito da Mondadori e tradotto da Alessandra Shomroni; ed è strana la lingua che parla Vera, la protagonista della storia, che viene dalla ex Jugoslavia ed è emigrata in Israele. Per tutto il libro la sentiremo usare un linguaggio da straniera, rimarcando continuamente un’appartenenza a un altro luogo e a un altro tempo. Con il destino di Vera e degli altri personaggi la vita ha giocato molto: un gioco a volte crudele e duro, ma come vedremo anche ricco, pieno di sorprese. E ha giocato anche con Grossman, data la genesi così speciale di questo racconto. Tutto nasce infatti da una telefonata ricevuta venticinque anni fa da una signora croata, Eva Nahir Panic, che gli chiedeva di scrivere la sua storia. Gli scrittori spesso ricevono richieste del genere ma Grossman si era subito reso conto che si trattava di qualcosa di unico e ha voluto ascoltarla.
Eva, che nel romanzo diventerà Vera, appartiene a una famiglia ebraica della Croazia degli anni Venti. Si innamora di un ufficiale dell’esercito serbo, povero e non ebreo, che nel libro ha il nome di Milos. Una grande passione, da cui nasce una figlia. Sullo sfondo, gli anni di Tito, anni complessi e ricchi di tensioni politiche. Tito viene scomunicato dal Cominform, l’organizzazione che riunisce i movimenti comunisti e il partito Comunista Jugoslavo è accusato di essere un covo di spie occidentali. In questo clima di nervosismo generale, accade un episodio drammatico per i protagonisti. Il marito di Eva viene accusato di alto tradimento e rinchiuso in carcere dove morirà suicida. Lei viene arrestata e posta davanti a una scelta atroce: confermare che lo sposo è un traditore e mettersi in salvo insieme alla figlia di sei anni oppure essere a sua volta imprigionata a Goli Otok, l’isola nuda, luogo di detenzione per i nemici del regime. La bambina finirà abbandonata in strada, pensaci bene, la minacciano i suoi aguzzini. La scelta avviene: è una scelta ideologica ma anche un’affermazione di libertà. Avrà comunque conseguenze terribili per tutti.
Il romanzo invece si apre molti anni dopo, con il compleanno di Vera ormai novantenne, trasferita da tempo in Israele con la figlia e vedova di un marito israeliano. “Il regalo” dei familiari consiste nella proposta di visitare insieme il paese di origine, iniziando un viaggio geografico e spirituale che coinvolgerà, oltre a Vera, anche sua figlia Nina, il compagno Rafael e la nipote Ghili che vuole documentare con la telecamera il ritorno a casa della nonna: un quadrilatero degli affetti, lo definisce Grossman, con sintesi esatta. Si parla di amore, infatti. Una presenza costante e trasversale che unisce epoche storiche diverse. Quello assoluto, esclusivo di Vera verso Milos, talmente intenso che perfino i due giovani sposi se ne sentono quasi sopraffatti. Ma anche l’amore non dato a Nina che come scopriremo a poco a poco è stata lasciata dalla madre finita in prigione e non si è più ripresa, diventando una specie di nomade sentimentale, incapace di ricambiare l’affetto di Rafael, che continua a nutrire nei suoi confronti una dedizione assoluta. E infine l’amore negato a Ghili, nipote di Vera, che a sua volta non ha avuto una madre accudente e che rischia di trasferire questa catena di dolore e anaffettività nella propria esistenza.
È un libro che parla di memoria, di un passato che affonda lontano, in Europa e che non riguarda stavolta la tragedia della Shoah, ma altri terribili effetti di una ideologia, quella di Stalin. L’interesse di Grossman si concentra sulla sofferenza, su come i segreti e i non detti si depositano nell’anima dei discendenti. In Vedi alla voce amore era il piccolo Momik a dover ridar corpo ai fantasmi e a materializzare paure inconsce nella propria cantina buia; qui l’eredità del dolore passa da una generazione all’altra in chiave matrilineare, conficcandosi nel profondo e modellando la personalità. Sembra quasi che ognuno di questi personaggi femminili rappresenti le differenti modalità che si possono avere nei confronti della memoria, sintomatiche anche della società israeliana di oggi. C’è Vera, la straniera emigrata, che pensa di ricominciare una vita in Israele ma che continua a abitare nel suo altrove; c’è Nina che cerca di cancellare le sue origini e di perdersi nell’ identità del nuovo paese, al punto di somatizzare il desiderio di rimozione in un Alzheimer precoce; c’è Ghili, la quarantenne nata sul posto, che considera la memoria come un dato oggettivo, un qualcosa che in fondo non le appartiene e che si può documentare scientificamente con una telecamera.
Tutti e tre questi punti di vista sono incompleti e riusciranno a trovare una sintesi solo nel momento in cui lo sguardo delle donne diventerà capacità di vedere l’altro e di accoglierne il tormento. Quando l’identità non sarà più una catena di dolore che lega i destini e chiude il cuore ma una scelta d’amore di vita. Ognuno di noi ha il dovere di ricordare ma anche il diritto di dimenticare che cosa non serve più al presente, di lasciar cadere i pesi della rabbia, di perdonare e andare avanti. Possiamo decidere se restare vittime inerti del gioco del destino o reagire, sembra dirci lo scrittore di questo romanzo (ma anche il padre di Uri, il figlio ucciso, l’autore dello splendido Caduto fuori dal tempo). Possiamo accettare di finire soffocati e paralizzati dalla paura o invece trovare dentro di noi la forza che ci consenta di ricominciare, di trovare un nostro posto nel mondo, di gettare un seme e sperare nel futuro.