Il modello che emerge con forza dal testo della preghiera è quello dell’incontro e della condivisione, che è possibile solo ricordando bene il luogo da cui si arriva…
L’idea di elezione è tra le più importanti, conosciute e fraintese di quante appartengono alla tradizione ebraica. Vorrei cercare di introdurre il discorso, che in ogni caso non può essere esaurito in quanto segue, entrando nel castello da una porta laterale, la preghiera Alenu.
L’Alenu è una delle preghiere più importanti della liturgia ebraica, ed è anche tra le più belle, a parere di chi scrive. Inserita in origine al centro del servizio liturgico di Rosh Hashanà, è stata poi adottata in conclusione a ogni momento di preghiera quotidiana. Secondo Yeshayahu Leibowitz, noto per l’espressione di giudizi spesso caustici, questa scelta è stata “disgraziata” perché con la ripetizione frequente il testo perde importanza, e la recitazione rischia di diventare azione meccanica e poco sentita. Di diverso avviso rav Haim F. Cipriani, dalle cui riflessioni contenute nel ricchissimo volume Schiudi le mie labbra. Le vie della preghiera ebraica (Giuntina), ho tratto alcuni degli spunti che seguono. Per Cipriani è importante che l’Alenu sia posta alla fine di ogni momento di preghiera perché “non costituisce tanto la conclusione dei singoli uffici, quanto una formula di preparazione a quello che avverrà dopo la preghiera”. In una fonte medievale si dice che a comporre il testo sarebbe stato Giosuè alla fine delle peregrinazioni nel deserto, poco prima di entrare nella terra di Canaan. L’ingresso nella terra è più difficile della permanenza per quaranta anni nel deserto, che è sì un ambiente ostile ma proprio in quanto tale anche disabitato, e perciò in grado di proteggere dagli altri popoli. Il Tanakh si dilunga sui pericoli che nascono dal contatto con i popoli che abitano la terra di Canaan, con cui inevitabilmente gli ebrei avranno relazioni di incontro e scontro, ma soprattutto di fronte ai quali non potranno rimanere indifferenti. L’Alenu dunque, per analogia, sancisce la fine del momento protetto della preghiera e annuncia il ritorno al mondo esterno, così pieno di opportunità, suggestioni e pericoli.
In che senso l’Alenu ha a che fare con il concetto di elezione del popolo ebraico? La preghiera comincia con le parole “è nostro obbligo lodare il Signore di tutto”, ma perché il Signore va lodato? Forse perché gli ebrei hanno qualcosa di speciale rispetto a tutti gli altri? Il motivo che differenzia il popolo ebraico rispetto agli altri è che gli ebrei possono praticare il culto del Signore, anzi hanno l’obbligo di farlo, ed è qui, sul terreno del dovere dunque e non del diritto, che va rintracciato ciò che rende speciale il popolo ebraico. Secondo Leibowitz è proprio nell’obbligo dell’osservanza delle regole, cioè delle mitzvot, che risiede la ricompensa. Un singolare privilegio, secondo alcuni, quello che consiste non in possibilità ma in vincoli più estesi di quelli previsti per gli altri. E infatti non è mancato chi nei momenti individuali o collettivi più drammatici ha chiesto a Dio, tra il serio e il faceto, il favore di eleggersi qualcun altro.
Il testo dell’inno, nella prima parte, insiste sulla particolarità e unicità di Israele. Per questo in alcuni libri di preghiere in passato, e in misura minore ancora oggi, è stato censurato in nome dell’universalismo. Questa scelta è discutibile sia perché il supposto particolarismo della prima parte va compreso in relazione all’universalismo della seconda, e viceversa, sia per quello in cui la specificità ebraica consiste, cioè, come abbiamo visto, un supplemento di doveri. Nel testo la differenza tra popolo ebraico e altri popoli viene identificata nel fatto che il primo si inchina di fronte all’unità divina, sola vera autorità, i secondi invece adorano idoli che hanno valore di “vapore e vuoto”. La responsabilità di Israele, quello che ne fa una voce fuori dal coro in un mondo in cui ai mezzi viene attribuito tanto spesso il valore di fini, è dunque la lotta contro l’idolatria. L’idolo vuoto che non salva può essere un totem di pietra, ma anche e soprattutto la perdita del centro, di ciò che è essenziale, confuso o sostituito con l’inessenziale. In romanzi che sono patrimonio di tutti, Dostoevskij sferra attacchi devastanti contro quelli che considera idoli del proprio tempo come le Chiese e a maggior ragione i surrogati di quelle come il socialismo o il progresso. Ma in ogni momento storico, e non di meno nel nostro, possiamo identificare abbastanza facilmente numerosi idoli. Se invece, sulla scorta dell’Alenu, l’unica autorità di fronte a cui inchinarsi non è umana ma divina, ecco che tutte le autorità stabilite dagli uomini appaiono per quello che sono, cioè relative e momentanee. E’ questo senso del limite, e non l’idea prometeica di imposizione arbitraria dell’autorità, a iniziare il processo che porta verso l’assunzione di responsabilità. Eppure il riconoscimento dell’ordine delle priorità conduce per una via stretta e difficile che spesso è anche di lacerante solitudine.
Se nella prima sezione dell’Alenu l’accento è sulla particolarità, la seconda insiste sul miglioramento del mondo intero. Nel finale la prospettiva universalistica si fa tutt’una con quella messianica: “In quel giorno Dio sarà riconosciuto uno e unico sarà il suo nome”. Contrapporre le due parti dell’inno però farebbe perdere di vista il legame che le unisce e l’unità del significato del testo. La via difficile che appartiene a pochi, qui identificata nella particolarità del popolo ebraico, è infatti premessa per la liberazione dell’intera umanità. La specificità è perciò funzionale al suo rovesciamento nell’era messianica, in cui la distinzione viene superata dal riconoscimento comune della trascendenza. E però la ricerca di quello che Cipriani definisce “un centro spirituale comune”, oggetto della seconda parte, non va perseguita attraverso la perdita delle differenze e l’assimilazione, ma al contrario per via della valorizzazione della specificità, cioè cercando ciò che alle diverse tradizioni è comune e procedendo nella medesima direzione. Nei libri profetici del Tanakh è forte questa aspirazione a una comunanza e condivisione universale nel mantenimento delle reciproche specificità, ed è forse proprio questa una delle sfide politiche che i tempi in cui viviamo rendono più urgenti.
Si dice spesso che ogni identità, per essere tale, ha bisogno di confini con cui distinguere un dentro e un fuori, noi e loro. Anche se potrebbe sembrare una posizione forte, sospetto che sia invece fin troppo blanda perché l’identità non pone confini, è quel confine. Se così è, segue l’inconsistenza dell’identità come realtà oggettiva e misurabile, ma segue anche lo scomparire dell’identità con l’abbattimento dei cippi. La lezione dell’Alenu non prevede di svellere ogni traccia di confine e neanche, in maniera solo apparentemente opposta ma a ben vedere singolarmente analoga, alzare le mura nel tentativo comunque anodino di evitare contatti con chi sta o viene messo fuori. Il modello che emerge con forza dal testo è invece quello dell’incontro e della condivisione, che è possibile solo ricordando bene il luogo da cui si arriva, come accade sullo spartiacque delle Alpi a quei camminatori provenienti dagli opposti versanti e paesi.
In questi tempi sospesi e per certi versi vicini al baratro le belle e colte riflessioni aiutano a vedere la luce in fondo al tunnel ?
Grazie !