Allegoria, straniamento, alterità di una figura che scompone la visione binaria di genere
In una misteriosa quanto disturbante scena di Fanny e Alexander (1982), il regista svedese Ingmar Bergman mette lo spettatore di fronte a un esemplare saggio di surrealtà. Il protagonista del film, Alexander Ekdhal, viene introdotto, mentre si trova a casa del rigattiere ebreo Isak Jacobi, alla presenza di uno dei figli di questi, Ismael. Interpretato dall’attrice Stina Ekblad, Ismael è una figura dall’apparenza ambigua e dall’essenza pericolosa, tanto che è rinchiuso – per l’una e per l’altra – in una stanza-prigione. Nel dialogare con il ragazzino, Ismael rivela: “Forse siamo la stessa persona e tra noi non ci sono confini. Forse passiamo uno nell’altro e mirabilmente scorriamo all’infinito uno attraverso l’altro”. A dare voce alla possibilità di una rottura dei confini interpersonali, in favore di un flusso esistenziale e ontologico, è una figura liminale dai tratti androgini e di origine ebraica: in altre parole, un “altro” per eccellenza.
Androginia e ebraismo, dunque, come aspetti chiave per incarnare l’alterità di ciò che va oltre i confini dell’ovvio, dell’unanime, del normale. Androginia e ebraismo come simboli di un’altra – possibile – realtà, forse sconosciuta e forse destabilizzante. Ma, al di là di quelli che possono essere tacciati come stereotipi (l’ebreo come effemminato), esiste e, se sì, qual è il rapporto tra questi due aspetti – ebraismo e androginia? Per rispondere, ci rivolgeremo alla letteratura classica dell’ebraismo, ovvero i testi prodotti dai rabbini in ebraico e aramaico nella tarda antichità.
Partiamo da una definizione terminologica. Nella lingua ebraica, il termine androgino è attestato esattamente come אנדרוגינוס (androginos), prestito dal greco androgynos il cui significato letterale è maschio-femmina. È curioso che si sia conservata una tradizione che mette in relazione l’androgino con la creazione di Adamo. Nel testo midrashico (ossia di commento biblico) Genesi Rabbah (8,1), troviamo queste descrizioni dell’adam qadmon, dell’uomo primordiale:
Rabbi Yeremyah ben Eleazar disse: “Quando il Santo-benedetto-sia creò il primo uomo, lo fece androgino [אַנְדְּרוֹגִינוֹס], com’è infatti scritto Maschio e femmina li creò [Genesi 5,2]”. Disse rabbi Shemuel bar Nachman: “Quando il Santo-benedetto-sia creò il primo uomo, lo fece a due facce, poi lo segò in due e gli foggiò due schiene, una qui e una lì”. Gli contestarono: “Ma se è scritto che Prese una delle sue costole [מִצַּלְעֹתָיו, Genesi 2,21]!”. Al che rispose: “Vuol dire da uno dei due lati, perché la stessa parola in Dal lato del tabernacolo [וּלְצֶלַע, Esodo 26,20] si traduce per l’appunto lato”.
Il richiamo, soprattutto alle orecchie del lettore “occidentale”, va al mito dell’androgino raccontato da Aristofane nel Simposio di Platone (189 c 2-193 d 5). Non è affatto improbabile che tale narrativa di origine greca fosse il riferimento che ispirò gli stessi rabbini, nei primi secoli dell’era volgare, a reinterpretare il testo di Genesi in questa direzione.
Ma, nella letteratura rabbinica, la questione dell’ambiguità (nel senso di duplicità) sessuale dell’androgino viene affrontata copiosamente anche dal punto di vista del pensiero giuridico, ovvero della halakhah. Nei vari testi dedicati al ragionamento legalistico, come la Mishnah, la Tosefta, il Talmud, troviamo numerosissime discussioni sullo statuto di chi per natura si trovi ad avere gli organi genitali sia maschili che femminili. Potrà sembrare bizzarro e forse anche irrispettoso agli occhi moderni che simili aspetti biologici e privati fossero oggetto di regolamentazione pubblica – ma è un dato di fatto che la halakhah rabbinica, come via di condotta, cercasse di ricoprire, con una voracità speculativa enciclopedica, tutti gli aspetti dell’esistenza umana. È il caso, ad esempio, del trattato della Mishnah che porta il titolo Yevamot (Cognate, fine del II secolo e.v.). Nel capitolo 8,6 leggiamo:
Rabbi Eliezer sostiene: “L’androgino può sposare [una donna] ma non essere sposato [come se fosse una donna]”. Inoltre egli dice che “Sempre riguardo all’androgino, l’uomo che giace con lui come fosse un altro uomo rischia la lapidazione”.
La proibizione dei rapporti sessuali omoerotici è, come noto, statuita in Levitico 18,22: “Non giacerai con un uomo come se giacessi con una donna: è un abominio”. La regolamentazione della Mishnah estende questo principio anche al caso in cui la persona “passiva” nel rapporto sessuale presenti anche gli organi sessuali femminili. Un testo all’incirca contemporaneo, la Tosefta, propone tuttavia un’applicazione meno rigida della norma (Yevamot 10,2):
[Ciò vale] se un uomo giace con lui come se fosse un altro uomo ma, se giace con lui non come se fosse un uomo, allora non incorre in penalità.
I complessi eufemismi del brano – che, vale la pena di notare, evitano di far riferimento a tutto quanto sia femminile – possono sintetizzarsi come segue: se un uomo ha un rapporto sessuale anale con un ermafrodito, egli è punibile con la lapidazione; ma se ha un rapporto sessuale vaginale con quegli, allora la penalità decade. La tendenza redazionale dei testi giuridici rabbinici, dunque, non esclude ma anzi contempla la possibilità e la necessità di sfidare lo status quo giuridico, decretandone la conseguente florida produttività letteraria.
Non solo biologia e legge però: l’androginia appare nella letteratura rabbinica anche come forma culturale. Un celebre riscontro è presente nel Talmud Babilonese, trattato Bava Metsia 84a, dove è raccontato il primo incontro tra due rabbi che verranno a costituire una delle più importanti coppie di colleghi/nemici: rabbi Yochanan, il bel giovane efebico, e Resh Laqish, il capofila di una banda di briganti:
Un giorno, rabbi Yochanan stava facendo il bagno nel fiume Giordano. Resh Laqish lo scorse e si tuffò nel Giordano per inseguirlo. [Rabbi Yochanan] gli disse: “Il tuo vigore si confà più allo studio”. [Resh Laqish] rispose: “E la tua bellezza si confà più a una donna”. L’altro gli disse: “Se ti ravvedi, ti faccio sposare mia sorella, che è anche più bella di me”. E [Resh Laqish] accettò. Subito dopo cercò di tornare indietro a riprendere i suoi vestiti, ma non ci riuscì più.
Nella storia, Resh Laqish scambia un poco virile o villoso Yochanan per una donna e se ne getta all’assalto. Confrontato con la realtà dei fatti e con la proposta di abbandonare il brigantaggio per intraprendere il sano cammino della Torah, Resh Laqish si lascia tentare, tanto da divenire parte della comunità rabbinica egli stesso (seppur spesso in contraddittorio con Yochanan). L’abbandono di uno stile di vita illegale, immorale e ipervirile coincide con l’immediata perdita della sua toxic masculinity: Resh Laqish, infatti, perde istantaneamente il vigore fisico che gli aveva permesso di attraversare il fiume per abusare della presunta fanciulla. L’antico preconcetto che attribuiva agli ebrei scarsa virilità è dunque adottato e rovesciato nel suo significato in questo testo: l’ambiguità dei caratteri sessuali secondari diviene segno fisiognomico e allegorico di continenza morale e devozione intellettuale. Quello di sesso, sessualità e genere è (divenuto) un tema complesso nella nostra contemporaneità. I contenuti del mondo ebraico tardoantico riflettono uno spirito del tempo assai differente, dominato fondamentalmente da una visione binaria del genere – visione che, come ai giorni nostri, portava con sé contraddizioni, incongruenze e discontinuità. Se i contenuti rimangono problematici, lo spirito di indagine – spesso puntiglioso e invadente – rimane tuttavia d’ispirazione metodologica per affrontare questioni la cui rilevanza intreccia scienza, giurisprudenza, etica e cultura.
Il giovane adolescente androgino, con la sua inebriante e delicata bellezza efebica, quella che mozza il respiro e fa seccare la bocca, è quell’individuo che può far vacillare l’identità eterosessuale di qualsiasi uomo. E chi non lo riconosce, o è ipocrita o è insensibile alla bellezza più pura.