Dialogo con la storica dell’arte e della filosofia Angela Vettese
Sulla possibilità di rappresentare la Shoah si sono interrogati intellettuali e artisti dall’immediato dopoguerra. Mostrare l’indicibile di quell’orrore, dargli forma nelle parole, nel teatro, nella poesia, ma anche nel disegno, nella pittura e nella scultura, come nella musica e nel cinema. L’espressione artistica può assumersi il compito di dire l’indicibile? La risposta è banale, in un certo modo, perché fa appello a un bisogno tutto umano di esprimersi, anche nel dolore. Ma qual è il modo attraverso cui si narra la Shoah? Ne abbiamo parlato con Angela Vettese, storica dell’arte e della filosofia.
Cosa significa rappresentare la Shoah?
Credo che nulla possa essere propriamente rappresentato, ma che la vocazione umana al racconto consenta sempre di restituire tracce e sintomi di ciò che è stata la storia, sotto forma di “story” piuttosto che di “history”. Resteranno sempre angoli più frequentati dalla narrazione, come la magrezza dei deportati, lo scandalo dei mucchi di morti ma anche la gigantesca colpevolezza di alcuni responsabili nazisti, rispetto a lati che non suscitano commozione e ci condurrebbero, se narrati, di fronte alle parti meno accettabili del nostro sentire: la pochezza dei collaborazionisti di Vichy, per esempio.
Qual è il rapporto tra Shoah e arte contemporanea?
L’arte contemporanea ha sentimenti misti rispetto alla Shoah. Non credo che la si consideri il simbolo del sacrificio per eccellenza o della massima sopraffazione dell’alterità. I sentimenti sono ancora troppo indefiniti, e temo lo resteranno e anzi, il vero pericolo è che la Shoah venga progressivamente normalizzata, accostandola al genocidio cinese durante la rivoluzione culturale, alle guerre africane tra Hutu e Tutsi, alle deportazioni dovute al dissenso i tutti i regimi totalitari del mondo . E’ come se si avesse bisogno di liberarsi dalla Shoah in quanto colpa dell’Occidente. In parte perchè in ambito cristiano resiste la maniera antica di vedere “il giudeo deicida”, in parte per l’avanzare di altre culture. Nella sua disperata laicità, nel suo non credere al Cristo che pure andava descrivendo, Pierpaolo Pasolini non ebbe pietà nel suo Vangelo secondo Matteo (1964): il potere giudaico vi viene rappresentato attraverso copricapi teatrali e comportamenti ridicoli. La rappresentazione delle Crociate fornita da Wael Shawky (2012) sottolinea come le vittime della riconquista cristiana di Gerusalemme non siano stati gli ebrei ma, soprattutto, i mussulmani. Nel 1994, mentre curavo la mostra Quarters di Mona Hatoum, mi venne naturale scrivere di un legame tra le sue quattro file di brande e le brande descritte dalle foto di Auschwitz. Ma lei, palestinese, si sentì ferita da quella similitudine. Né possiamo dimenticare che l’Occidente cristiano sta perdendo potere di fronte a civiltà di altro orientamento religioso, dall’Islam più o meno insistito all’ateismo cinese. E nessuno di questi soggetti ha motivi per difendere la memoria della Shoah.
Quali sono gli artisti che raccontano la Shoah?
Ci fu un momento di estrema commozione appena dopo la scoperta dei campi; credo che il massimo della capacità interpretativa sia stato toccato da Hitchock, chiamato a garantire che i filmati sui reduci non fossero contestabili dai negazionisti. Ma poi le cose cambiarono. Abbiamo avuto molti film straordinari, tra cui prediligo Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974), l’unico capace di restituire la complessità del rapporto vittima-carnefice. Ma in fondo oggi ricordano la Shoah quasi solo gli artisti legati all’ebraismo, da un architetto come Libeskind a .un artista visivo come Menashe Kadishman. Non è un caso che le Pietre d’inciampo di Gunter Deming, in cui l’artista tedesco scrive il nome, la data e la quantità di persone deportate da un luogo e interra il blocchetto di ottone davanti alla soglia da cui passarono i deportati, si risolvano in presenze molto sobrie e mai monumentali. E’ una sorta di autodifesa dell’opera, che trova la sua forza non nella dimensione ma nello spargersi in molti luoghi del mondo e nella dimensione performativa della sua messa in opera (io stessa ho partecipato alla posa delle pietre nel Ghetto di Venezia, nel gennaio 2014). Un monumento molto visibile rischierebbe la distruzione o l’ingiuria, come è accaduto con le tombe profanate.
Ci fu un momento di estrema commozione appena dopo la scoperta dei campi; credo che il massimo della capacità interpretativa sia stato toccato da Hitchock, chiamato a garantire che i filmati sui reduci non fossero contestabili dai negazionisti. Ma poi le cose cambiarono. Abbiamo avuto molti film straordinari, tra cui prediligo Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974), l’unico capace di restituire la complessità del rapporto vittima-carnefice. Ma in fondo oggi ricordano la Shoah quasi solo gli artisti legati all’ebraismo, da un architetto come Libeskind a .un artista visivo come Menashe Kadishman. Non è un caso che le Pietre d’inciampo di Gunter Deming, in cui l’artista tedesco scrive il nome, la data e la quantità di persone deportate da un luogo e interra il blocchetto di ottone davanti alla soglia da cui passarono i deportati, si risolvano in presenze molto sobrie e mai monumentali. E’ una sorta di autodifesa dell’opera, che trova la sua forza non nella dimensione ma nello spargersi in molti luoghi del mondo e nella dimensione performativa della sua messa in opera (io stessa ho partecipato alla posa delle pietre nel Ghetto di Venezia, nel gennaio 2014). Un monumento molto visibile rischierebbe la distruzione o l’ingiuria, come è accaduto con le tombe profanate.
A cosa serve raccontare la Shoah?
Quando si parla di antisemitismo occorre ancora, letteralmente, volare rasoterra, e non credo che la cosa migliorerà. La capacità dell’ebreo di incarnare l’alterità, con la sua pericolose forme di nudità e resilienza, cioè con la sua dimostrata capacità di riaversi dalla perdita dei beni materiali e morali, continua a fare paura. Il cinema ha continuato a parlarne, da Roberto Benigni a Steven Spielberg e soprattutto, a più riprese, Roman Polanski. Tuttavia spesso si tratta di narrazioni che prescindono da cosa significhi davvero l’essere una Nazione senza Stato (o senza uno Stato in cui ci si riconosca appieno, del quale però si finisce per doversi assumere le responsabilità). La descrizione dell’orrore viene demandata alla fantascienza biopolitica, persino alle forme di schiavismo reincarnate nei robot, come nell’epopea Guerre Stellari e, dagli anni ottanta in poi, attraverso la rappresentazione di identità mutanti e private di libertà. Come suggerisce Donna Haraway, è difficile convivere con il trauma (staying with the trouble), ma non c’è altra via. Ed è meglio che non venga fissato, ipostatizzato, trasformato in simbolo e quindi cristallizzato una volta per tutte, riducendolo all’impotenza: solo finché genererà disagio saprà essere una fonte di riflessione. Rasoterra, ma attiva.