Un richiamo alla propria coscienza e alla memoria religiosa. Il suono del corno (di quale animale?) e i suoi significati
L’ascolto del suono dello shofar (teqi‘at shofar), insegnano tutti i maestri, è il precetto specifico della prima grande festività del nuovo anno ebraico, Rosh haShanà, che significa ‘il capo d’anno’. Anche chi frequenta la sinagoga solo per le solennità del mese di Tishrì sa che questo è il momento più intenso della vita religiosa ebraica: infatti mentre il chazan – o un rabbino esperto – suona lo shofar, si crea un improvviso silenzio, il brusio generale si ferma e per l’ascolto di quello strano suono tutti si concentrano: qualcuno si copre il capo con il tallit quasi volesse meglio isolarsi; altri chiudono gli occhi come quando si recita lo Shema‘ Israel… Pochi momenti liturgici sono ebraicamente più intensi dell’ascolto dello shofar (uno dei rari simboli dell’antico Israele e del giudaismo rabbinico che il cristianesimo non abbia scippato e fatto proprio, adottandolo e adattandolo alla propria teologia). Nessuna sorpresa che su questa mitzwà si sia accumulata molta riflessione e che i maestri abbiamo fissato regole e modalità precise al riguardo.
In realtà, a fronte dei molti dettagli halakhici, vi è poca spiegazione nei testi sacri sul significato di questo antico rito, che certamente caratterizzava e ritmava il complesso sistema del culto templare a Gerusalemme all’epoca sia del primo sia del secondo tempio. Mancando una motivazione unica e ufficiale, le spiegazioni rabbiniche si sono moltiplicate. Una delle più diffuse la troviamo in Maimonide, che nel suo trattato circa le Norme sulla teshuvà dice: “Si esegue la teqi‘at shofar in quanto è un precetto della Torà: tale suono è un richiamo a un serio esame di coscienza per coloro che dormono e sonnecchiano, come a dire: ‘Svegliatevi’…” (III,4). Più in generale il valore simbolico di questo suono, così lontano dalle nostre armonie musicali, è connesso a una memoria religiosa, dunque serve a ricordare e farsi ricordare dal Signore benedetto. Tale suono fa risalire il pensiero all’ariete che Abramo sacrificò sul monte Moriah al posto di Isacco, sacrifico che conclude il racconto di Bereshit/Gn 22 noto come l‘aqedat Itzchaq o legatura di Isacco, e che suggella, per così dire, l’atto di fede del primo patriarca. Da qui derivano gli altri significati che sono attribuiti a quel suono e allo strumento che lo produce: lo shofar diviene così simbolo della vittoria del bene sul male, del grido che invoca salvazione, della redenzione futura che avverrà quando tutti gli ebrei avranno fatto teshuvà – penitenza e/o ritorno in eretz Israel – ma può far pensare alla voce divina immaginata come un tuono (qol) o, appunto, come il suono di un corno. Per veicolare e garantire tutti questi significati si è dunque sviluppata l’halakhà su questo oggetto liturgico e sulle modalità del suo impiego (ad esempio, sulle diverse lunghezze e sequenze delle soffiate, che producono varianti nel suono che ne esce).
Una delle fonti classiche dell’halakhà sullo shofar è il trattato talmudico Rosh haShanà (il primo a essere stato tradotto in italiano, a cura di rav Riccardo Di Segni, edito da Giuntina). Specie nel capitolo terzo i maestri discutono, con opinioni diverse, anzitutto su cosa si intenda per shofar: tutti i corni animali sono shofarot? No, perché il corno bovino è chiamato qeren e non shofar; inoltre il corno bovino ricorderebbe (e farebbe ricordare al Signore benedetto) il vitello d’oro ossia il grave peccato d’idolatria commesso da Israele ai piedi del Sinai, un demerito che allontanerebbe il chesed, la pietà divina, e riaccenderebbe il din, il giudizio severo. Se il suono deve contribuire alla difesa (sanegòr) di Israele, non può evocare l’accusa [kategòr], dice il trattato talmudico (26a). L’unico ricordo che vale come ‘merito’ è quello della legatura di Isacco ovvero della fedeltà di Abramo, per cui il corno non dev’essere di bovino. Ideale è quello di ariete o di stambecco, ma vanno bene anche quelli lunghi e affusolati delle antilopi o quelli corti di certe capre (non quelli di cervo, che sono pieni e non possono essere insufflati).
La Mishnà alla base del trattato talmudico riporta l’opinione condivisa secondo cui “lo shofar usato per Rosh haShanà deve essere di stambecco e dritto” (26b), mentre nei giorni di digiuno, come Kippur, lo shofar dev’essere di montone e ricurvo. Ma alcuni maestri, tra cui l’autorevole rabbi Yehudà haNassi, non sono d’accordo, e affermano il contrario: che sia ricurvo (di montone) a Rosh haShanà, e dritto (di stambecco) nelle altre occasioni. Può sembrare una discussione oziosa; in realtà è ricca di senso religioso, perché sottende due atteggiamenti spirituali diversi: quando rabbi Yehudà dice che a capodanno lo shofar deve essere di montone, cioè ricurvo, intende dire che a capodanno una persona deve volgersi al proprio interno, quasi ‘curvarsi su se stesso’ come un corno ricurvo, in modo introspettivo e fare teshuvà, mentre nelle altre occasioni può alzare il capo e tendersi, in modo diretto verso l’alto, come un corni dritti di stambecco. La Mishnà propende per un corno di stambecco, ossia dritto, sia per il capodanno sia per il giorno dell’espiazione, lasciando il corno ricurvo per gli altri giorni di digiuno.
Come si intuisce, non è lo strumento in sé ma quel che veicola, lo scopo a cui serve, a dettare la norma. Tuttavia il Talmud si dilunga a spiegare anche le possibilità che gli shofarot siano inadatti, non kasher, ad esempio quando sono fessurati o rotti, in parte o in toto (27a). Oppure se e come si possa suonare lo shofar di shabbat… Infatti, quando esisteva il Tempio, a Rosh haShanà lo shofar veniva suonato anche di shabbat, mentre da quando non c’è più il Tempio, se il capodanno cade di sabato lo shofar non si suona (si attende che lo shabbat esca); ciò per evitare che lo si trasporti in un’area pubblica, come spiegato dallo stesso Maimonide (un trattato del suo codice Mishnè Torà è dedicato alle norme sugli shofarot). La questione di uno shofar difettoso venne sollevata da alcuni ebrei religiosi a rav Ephraim Oshry in un campo profughi lituano, nel 1942; e la sua tshuvà (risposta) fu: “La maggior parte dei codificatori pensa che se la crepa è meno lunga della metà dello shofar, tale corno va bene; a maggior ragione va bene uno shofar difettoso, specie se nessun altro shofar è disponibile. Questi ebrei volevano compiere una mitzwà finché erano vivi, non sapendo cosa il giorno dopo sarebbe successo loro”. Tutti i precetti della Torà, infatti, sono dati “perché si viva in essa” e la Torà tutta è chianata etz chayim, albero di vita, un sempreverde!
Shanà tovà u-metuqà a chi legge.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
Bellissimo articolo.
Grazie per tutte queste preziose informazioni che io, dopo averle assimilate condivido con gli amici e soprattutto ” nemici
Cioè i Gentili che non amano Israel.