Cultura
L’avvenire delle superstizioni e la tentazione dell’insulto antigiudaico

L’antisemitismo e il complottismo portano con sé il corredo di una sottocultura del sospetto sistematico, dove una parte della società è indicata come causa delle difficoltà e dei problemi collettivi di quella restante

Ed uno, e due, e tre insieme a molto altro. Non si fa in tempo a finire di commentare ed affrontare un fattaccio che subito se ne impone, alla cronaca pubblica, un altro. E poi un altro ancora. A Torino, una consigliera comunale del partito di maggioranza relativa, al governo della municipalità metropolitana, veicola sul suo profilo social un post dichiaratamente antisemita, associando un meme razzista alla concentrazione di testate quotidiane in un gruppo editoriale; poco più di cento chilometri in là, a Milano, una cliente, dinanzi alla richiesta di un farmaco contro l’insonnia, quando pronuncia la parola «Israele» subisce una gragnola di invettive, dalle accuse contro il «furto della terra palestinese» al «meglio morta che ebrea». Sono solo due esempi conclamati di una tentazione, quella dell’insulto antigiudaico, che non ha freni inibitori. A fronte degli episodi denunciati pubblicamente, c’è l’inquietante oceano di microeventi che si ripetono in una sorta di assordante ovvietà, quasi a volere confermare che, nella tradizione nera dell’antisemitismo, poco o nulla è cambiato. Qualche amara riflessione, senza per questo abbandonarsi a chissà quale abissale afflizione, pertanto si impone. Ben sapendo che se, in fondo, si reiterano analisi già fatte e dette, è perché sono gli eventi medesimi a riproporsi nella loro sconfortante e desolante ripetitività.

La diffusione, sempre più pervasiva, di affermazioni antisemitiche e complottiste – che riducono la complessità e l’apparente indecifrabilità del reale ad un’interpretazione altrimenti diretta, lineare, antropomorfa (i responsabili del disagio che si sta vivendo sono sempre “altri” uomini e donne) e, soprattutto, di falsa “denuncia” dello stato delle cose esistenti, attribuendo infine qualsiasi evento all’azione di “forze occulte” (ma anche di non meglio precisati «poteri forti») – non è infatti un residuo del passato ma la prospettiva alla quale rischiamo di consegnarci in un sorta di medioevo tecnologico. Nel quale, all’evoluzione quasi esponenziale della massa di dati e informazioni trattati subentra, per molti cittadini, la crescente incomprensibilità degli effetti del mutamento. Tante sollecitazioni, nessuna comprensione.

volere dire che la realtà si presenta come un guazzabuglio che va riordinato. L’antisemitismo, e con esso la delirante visione cospirativa, non nascono quindi da un difetto di conoscenza ma – piuttosto – dal bisogno e dalla presunzione di potere conoscere il tutto, dominandolo con i propri sensi e per il tramite di una ragione tanto delirante quanto lucida e inflessibile. Altri parlerebbero di «società del rischio», dove il vero scarto è tra l’ossessivo bisogno di prevedere e prevenire a fronte della mancanza di reali risorse collettive da disporre effettivamente in tale senso. Nonché della evidente impossibilità, dinanzi ad eventi che fuoriescono dalla sfera dell’azione e della diretta manipolazione umana, di agire anticipatamente: si possono costruire edifici a norma antisismica ma oltre certe soglie, eventuali scosse telluriche scaricano una tale quantità di energia da non potere essere fronteggiate con ciò che al momento l’ingegno umano mette a disposizione.

Peraltro, quando entriamo nel campo della previsionalità, ambito al quale è connaturata un elevato grado di incertezza, abbiamo a che fare con atteggiamenti frequentemente incentivati dalle stesse autorità pubbliche. Le quali invitano le collettività a “precedere” il manifestarsi delle cose, presentando ciò come un fattore positivo poiché a garanzia dell’evoluzione dell’ordine sociale. Salvo, tuttavia, misurare su di sé, nel medio e lungo periodo, in termini di declinante credibilità, il costo di questa cesura tra astratta previsionalità ed effettiva capacità di prevenzione, quand’essa è estesa a tutta la popolazione. Le nostre società si basano su un profondo nesso tra previsione e prevenzione. La qual cosa, però, implica, la stabilità delle condizioni di vita e la comprensibilità (nonché la calcolabilità) dei processi a venire. Due cose che in questi anni sono invece profondamente cambiate, incidendo sul comune sentire. Rispetto al quale siamo invece in presenza di una sorta di profondo differenziale cognitivo, quello che intercorre tra aspettative e realtà, ovvero tra bisogno di protezione (incorporato nella “visibilità” dei processi sociali e nell’intervento di istanze, agenti e soggetti superiori, abbondantemente mitologizzati, come lo «Stato») e lievitante sentimento di abbandono (derivante dal riscontro che le cose si dispongono in ben altro modo).

Questo scarto quotidiano che si fa, nella percezione diffusa, scacco totale («ci stanno ingannando»), rischia di divenire una sorta di orizzonte emotivo totalizzante per molte persone, defraudate del sogno di una calcolabilità totale ma anche private del ruolo consolatorio che, in società articolate come la nostra, svolgono quelli che vengono chiamati «corpi intermedi», ossia l’insieme delle organizzazioni che mediano tra gli interessi e i bisogni degli individui, da una parte, e le grandi strutture impersonali, a partire dallo Stato, dall’altro. I corpi intermedi, infatti, hanno esercitato a lungo una duplice funzione: quella coalittiva (insieme possiamo ottenere qualcosa di più ma, soprattutto, possiamo dividerci meglio i costi dell’imprevedibilità, ammortizzandone collettivamente gli oneri) e quella redistributiva (dando voce al bisogno individuale che si fa richiesta comune e, quindi, capacità di contrattazione), quindi risarcitoria (se una cosa ti accade te ne fai una ragione insieme ad altri e poi prosegui, confidando in un comune futuro migliore oltre a potere avere qualche compensazione materiale e morale). Il declino di soggetti collettivi come i sindacati, i partiti di massa, l’associazionismo rivolto alla cittadinanza (di contro al crescere di organismi e soggetti particolaristi, che enfatizzano la dimensione rivendicativa legata all’«identità» e al privato) è peraltro connaturato a quella che viene comunemente chiamata «crisi del ceto medio». Un prodotto, quest’ultima, della globalizzazione in atto, che sta rompendo le filiere sociali centrali delle società a sviluppo avanzato. Da ciò al dovere denunciare un affaticamento delle democrazie sociali e liberali, il passo è francamente breve.

La superstizione subentra quindi a riempire questo vuoto, agendo da vero e proprio ansiolitico e da inibitore dell’angoscia da mancanza di comprensione. Non basta stigmatizzarla e condannarla poiché essa non demanda al campo della comprensione e della cognizione ma, piuttosto, all’emozione e al risentimento. Agisce quindi su un piano che non è quello della ragionevolezza intellettuale così come dell’etica dei sentimenti di reciprocità bensì della razionalità rispetto ad un fine di sopravvivenza. Il quale, in questo caso, impone di porre un freno al dilagare di un timore panico, quello di perdere il controllo della “situazione” che si sta vivendo e, con essa, di se stessi. Le teorie del complotto e i pregiudizi antisemitici, in quanto strutture lucidamente deliranti, hanno una loro assoluta e incontrovertibile linearità e regolarità, non prestandosi a nessuna replica di merito. Quand’essa dovesse comunque presentarsi, anche in forma ineccepibile e comprovata, ci si sentirà rispondere, da chi crede nella “minaccia ebraica”, che ciò che viene contro-affermato non è mai di per sé sufficiente a dimostrare la fallacia del pregiudizio. Poiché il complottismo segue il percorso di qualsiasi ideologia, avendo ad oggetto non la realtà ma le costruzioni mentalizzate che si fanno su di essa. È, per l’appunto, la «logica di una idea», e non un’idea sulla logica.

Sospetto sistematico, pregiudizio, teoria del complotto hanno in comune non solo la semplificazione della complessità ma anche la dichiarazione di principio che non esiste altra realtà plausibile che non sia quella che deriva dalla proiezione ossessiva delle proprie fantasie. Si tratta, nel qual caso, non di follia (anche se gli increduli astanti possono viverla in tale modo, subendone gli effetti deteriori), bensì di una sorta di realizzazione di quella istanza di autoaffermazione che parrebbe sentenziare: “se la realtà non si piega ai miei bisogni, tanto peggio per la realtà stessa, costruendomene una a mia immagine e somiglianza e condividendola con altri, in una sorta di comunione d’affetti”. Poiché i “complottisti” e gli antisemiti, intesi nel senso di coloro che denunciano l’esistenza di trame occulte in quanto ragione delle disgrazie collettive, si vivono come una comunità sentimentale e morale, condividendo un legame profondo che è generato dal riconoscersi reciprocamente come portatori di una consapevolezza superiore, quella che deriva per l’appunto dal dedicarsi allo smascheramento della congiura.

L’indignazione si trasforma quindi da risorsa civile in strumento per coalizzare gli arrabbiati e canalizzarne il risentimento verso obiettivi prestabiliti. In una rincorsa al ribasso, dove ogni pudore residuo decade e dove l’impronunciabile, per il fatto stesso di essere invece detto in pubblico, assume le fattezze di un discorso accettabile poiché di senso comune. Funziona così, pressoché da sempre, l’impianto antisemitico. Ma nella sua struttura portante non è poi molto diverso da altri disastrosi preconcetti, molto diffusi nelle nostre società. Così, tra i tanti casi possibili, per ciò che riguarda le polemiche inverosimili e bislacche, deliranti prima ancora che ingiuriose, sul declassamento dell’intensità dei terremoti a fini di calcolo politico (qualcuno se le ricorda, anche in tempi recenti?); oppure, la campagna, per molti tratti allucinata, di alcuni soggetti contro la vaccinazione (obbligatoria), nel nome della lotta nei confronti delle «multinazionali della salute» e così via.
Non è mai un caso se i più solidi pregiudizi si tengano insieme, albergando nelle medesime persone e tra gli stessi gruppi sociali. Il campo della salute del corpo (quello individuale ma anche quello collettivo, la società, quest’ultima raffigurata come una sorta di organismo antropomorfico) è peraltro da sempre il terreno elettivo delle peggiori demenzialità. Si tratta di dinamiche settarie, che in prospettiva minano lo stesso principio democratico della cittadinanza, in sé altrimenti inclusivo e pluralista e non esclusivo e monista.

Poiché l’antisemitismo e il complottismo portano con sé, sempre e comunque, il corredo di una sottocultura del sospetto sistematico, dove una parte della società è indicata come causa delle difficoltà e dei problemi collettivi di quella restante. Fa quindi riflettere il fatto che a dettare l’agenda politica concorrano, ai giorni nostri, forze politiche che proprio su di una visione basata sistematicamente sul complotto (quello che, in questo caso, sarebbe ordito dalle élite, perlopiù economiche, ai danni della collettività) stiano costruendo alcune delle loro fortune. Poiché alimentate da un diffuso credo popolare, orientato in tale senso. Tradotto quindi in assensi e consensi, in una mescita elettorale premiante. L’obiezione che una parte di esse possano essere oggi anche agenti di governo, assisi al potere amministrativo come anche a quello legislativo ed esecutivo, nulla toglie alla mefitica pervasività dei costrutti che hanno “sdoganato” aspetti importanti dell’impensabile. La loro strategia comunicativa, infatti, continua a ruotare intorno al vellicare ossessivamente una regressione verso l’istinto di autodifesa e di sopraffazione. Se il trumpismo, in America, non finisce con l’infelice conclusione della pirotecnica presidenza Trump, così il sovranismo – che continua ad alimentarsi delle molteplici crisi generate dalla radicalizzazione e dalla velocizzazione dei passaggi da una società a produzione industriale ad una digitale – sa di avere dinanzi a sé praterie sconfinate. Peraltro, l’antidemocrazia è sempre stata abile nel camuffarsi, così come un camaleonte, presentandosi, di volta in volta, come affermazione e, al medesimo tempo, in quanto negazione del processo democratico medesimo.

Si è appellata al “diritto a prendere parola”, per meglio poterla manipolare; si è rivolta alla censura della parola altrui, per perimetrare con efficacia gli spazi delle discussione pubblica, di fatto saturandola e monopolizzandola con l’ossessività della sue formulazioni banali ma seducenti, capaci come tali di stabilire un dominio sul discorso di senso comune.
Il complottismo e l’antisemitismo, peraltro, nella loro comune ragione intrinsecamente paranoica, non vivono di semplici immagini create ad arte ma piuttosto dell’enfatizzazione ideologica di un qualche elemento della vita comune, decontestualizzandolo ed isolandolo come se fosse un assoluto. In altre parole, non devono inventare nulla ma, piuttosto, sottrarre un elemento dal suo contesto, facendolo poi divenire la chiave attraverso la quale presumere di capire come si muova il mondo. Studiando le strutture logiche dell’antisemitismo ci si trova spesso a confrontarsi con una tale disposizione d’animo. Si tratta di una forma di vera e propria falsa coscienza, capace di raccogliere intorno a sé molteplici e insospettabili consensi poiché si presenta come “denuncia” dell’inconfessabile trama occulta, disvelamento degli interessi celati, disoccultamento delle “autentiche ragioni” per cui il popolo (oggi evocato come «gente»), sarebbe indistintamente ingannato da forze tanto potenti quanto celate.

Un classico, nei momenti di crisi da trapasso delle vecchie forme di organizzazione sociale in un qualcosa di nuovo, in sé poco o nulla preventivabile e ancora meno gestibile con le proprie sole risorse. In poche parole, per ricostruire il quadro di merito in cui il pregiudizio si conforta, va ricordato che: l’evoluzione tecnologica, sempre più accelerata, comporta sia una redistribuzione di risorse e di saperi che il riproporsi di diseguaglianze in società che pensavano invece di poterle vedere attenuate; i centri di imputazione dei processi decisionali sono molto meno tangibili e identificabili rispetto ad passato anche solo da poco trascorso, mentre gli effetti di decisioni sistemiche collassano letteralmente su intere comunità, concorrendo a trasformarne identità e spazi di azione; i destinatari di questi cambiamenti si trovano nella scomodissima situazione di dovere subire senza potere reagire, se non individualmente, adottando quindi strategie di sopravvivenza; la sensazione di spossessamento, unita al senso del declassamento e al timore per il tempo a venire, diventano il fertile terreno per il diffondersi del convincimento che la realtà sia di per sé un inganno e che quest’ultimo derivi dall’azione di soggetti tanto brutali quanto nascosti, smascherati i quali lo “stato delle cose” dovrebbe finalmente tornare alla quiete della prevedibilità. Una concatenazione, quest’ultima, che non riguarda una generica “ignoranza”, interrogandoci semmai sull’inquietante esistenza di una sorta di illuminismo capovolto, quello per l’appunto che deriva dalla necessità di continuare ad illudersi, al riparo di una falsa comprensione del significato degli eventi. L’avvenire delle superstizioni riposa sempre sull’angoscia del presente.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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