Hebraica
Le due quarantene di Mosè

Dialogo con rav Haim Fabrizio Cipriani a proposito di quarentene, vaccini e infermieri. Tra il Sinai, il deserto e la terra di Canaan

Inevitabile finire con la mente a Mosè e alle sue (ben) due quarantene sul Sinai in questo momento di quarantena contemporanea. Ne abbiamo parlato con rav Haim Fabrizio  Cipriani, che ci guida in un viaggio interpretativo alla luce del presente. Così Mosè veste i panni dell’infermiere (di Dio), l’Egitto quello del virus e il deserto è una sorta di terra di immunizzazione (un vaccino?).

Perché Mosè si sottopone due volte alla quarantena?
“Sembra quasi un incidente. Quando torna tra il suo popolo con le Tavole della Legge, Mosè non si aspetta di trovarlo in quelle condizioni. Così distrugge le tavole e torna sul Sinai. Forse fugge da una possibile nuova infezione, dopo quella da cui sono fuggiti, l’Egitto. In fondo la fuga è una sorta di terapia di gruppo, tanto che i quarant’anni di permanenza nel deserto servono a creare una generazione successiva, che non ha conosciuto la schiavitù, pronta a entrare nella Terra di Canaan. Gli anziani muiono durante quei quarant’anni, saranno i giovani, nati in una situazione di libertà, a compiere la rivoluzione successiva, proprio perché nascono con gli anticorpi necessari a difendersi dal virus egiziano. E Mosè? C’è una triangolazione tra Mosè, Dio e il popolo in cui la sua vicinanza a Dio è maggiore rispetto a quella del popolo. Ma proprio per questo Mosè guarda al suo popolo con una certa distanza e finisce per idealizzarlo. Pensa che la terapia della fuga sia sufficiente ad allontanarlo dal modello da cui sono scappati, ma poi è costretto a constatare che non è così”.

Dunque c’è una sorta di presa di coscienza anche da parte di Mosè?
“Sì. Si accorge di aver idealizzato il suo popolo e di non avergli dato la cura adeguata. Lui è l’infermiere di un medico eccelso, un esecutore molto nobile, ma non è il medico. L’episodio del vitello d’oro nasce infatti da un mancato contenimento panico perché l’infermiere Mosè non c’è e il popolo sente il bisogno di rimpiazzarlo. Ecco il virus: la sopraffazione, qualcosa che è insito alla natura umana. E il rischio è che il popolo faccia di Mosè un nuovo faraone. La liberazione che si deve raggiungere in questa storia è proprio da questo tipo di virus. Mosè deve proteggere anche  se stesso dall’epidemia, così torna in quarantena. Che è anche una forma di teshuvà attraverso la quale Mosè cerca di capire gli avvenimenti e di assorbire la frustrazione di vedere che le sue cure non sono state sufficienti. Avvia un processo, cioè, di resilienza, ovvero la capacità di adattarsi a nuove problematiche. Deve trovare il modo di far capire al suo popolo che l’uscita dall’Egitto non va letta secondo il culto del successo, come una vittoria, bensì come un passaggio in cui ci si trova ad affrontare nuove situazioni“.

Perché rompe le tavole?
“Rompe le tavole della legge per evitare che si contaminino. Secondo la Bibbia alcune cose si kasherizzano solo rompendole perché la scissione dell’oggetto e la successiva ricomposizione equivale alla creazione di un terzo oggetto, altro rispetto a quello impuro. Mosè però non le rimonta, ne fa altre perché non accetta che quelle tavole possano venire contaminate. Le seconde tavole sono scritte da lui stesso, dunque hanno un contenuto umano, più appropriato al destinatario. La resilienza di Mosè diventa un tema nella riscrittura delle tavole: è un suo adattamento personale alla nuova realtà, avvenuto dopo la presa di coscienza e un percorso di teshuvà. La seconda quarantena dunque è proprio questo: Mosè capisce che il popolo è malato di idolatria, è affetto dal culto del potere, come tutta l’umanità, dunque anche lui stesso. Ecco: scappa sul Sinai una seconda volta per paura di diventare come il popolo, mentre invece vuole essere il contrario. Si accorge della sua vulnerabilità e la accetta, ritirandosi in quarantena per superarla”.

Dopo però c’è una profilassi lunghissima da seguire, ben 40 anni nel deserto…
“Superata la fase acuta, nulla sarà come prima. Dunque si rende necessaria una terapia lunga e articolata che ha un obiettivo superiore: salvare il popolo, ma non necessariamente l’individuo. L’idea di un progetto collettivo è ben rappresentata da Mosè che salirà sul monte per vedere la terra in cui andrà il suo popolo ma nella quale lui non entrerà. Ci andrà la generazione successiva, dunque gli individui lasciano lo spazio al progetto collettivo che trascende le generazioni”.

Che funzione ha dunque il deserto?
“Nel deserto si creano i presupposti di questo progetto collettivo, che guarda al futuro attraverso un senso di continuità, prima di tutto pedagogico. L’esistenza nel deserto è completamente diversa sia dal prima sia dal dopo e la generazione del passaggio deve educare quella nuova, preparandola a quello che verrà: entrare nella terra di Canaan, organizzare la società, fare guerre… Dunque è proprio nel deserto che si impara a guardare le cose con altre lenti, a fare della resilienza qulcosa di tipicamente ebraico. Che esula dai semplici numeri. Per la Bibbia infatti è proibito contare le persone”.

Può spiegare meglio?
“La logica dei numeri ha a che fare con il modello egiziano da cui gli ebrei scappano: la forza come numero per sopraffare chi è più debole (anche numericamente). E in effetti, l’episodio del vitello d’oro si accompagna a una pestilenza perché si erano contate le persone e stabilito il numero delle perdite. La realtà non va ridotta a numeri, che sono solo un aspetto, mai il totale”.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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