Come cartoline giunte a noi da un lontano passato le iscrizioni ci portano il saluto di chi arrivando a Gerusalemme ha lasciato un segno e, molto probabilmente, ha permesso a Gerusalemme di lasciare un segno dentro di sé.
La terra d’Israele non è il museo di Dio. Nessun posto è il museo di Dio. Nessuna persona o oggetto, vivo o inanimato, sono da adorare. È però possibile toccare e cambiare, a patto che tu stesso sia pronto ad essere toccato e cambiato.
Questa condizione è l’amore. So che sia impossibile “educare ad amare”…. “educare ad amare il Paese” né tantomeno “educare ad amare un panorama”. Con l’amore rischi a volte di “infettare” gli altri.
A volte puoi essere risvegliato, a volte; ma non con le maniere forti, non con le armi, non con la rabbia bruciante, solo con un approccio umano.
Quando arrivi in un posto, una collina, il deserto, una sorgente, una casa, un cortile, una stanza lo cambi ed imprimi il tuo segno; ma è anche necessario dare a tutti quei posti la possibilità di lasciare un segno in te.” (Amos Oz)
Visitare Israele non è un viaggio come gli altri: pochi sono i luoghi con un potere simbolico evocativo così forte. Ogni sito o panorama richiama un fatto o una vicenda che ci sono stati narrati e che ci portano alla ricerca della nostra storia e della nostra identità. Ancora più forte è il potere simbolico evocativo di Gerusalemme, una città che non lascia indifferenti; chi visita Gerusalemme, ebreo, cristiano o musulmano, vuole lasciare un’impronta tangibile della sua presenza , oppure, portare qualcosa della città santa da conservare con sè.
Ed è così che quasi apprezziamo i graffiti che diventano qualcosa da preservare, raccontare, che ci illumina la storia e ci porta un saluto inaspettato da lontano.
È nota a tutti l’usanza di lasciare un foglietto con una preghiera o un desiderio nelle fessure del Muro Occidentale prima di camminare al contrario come gamberi per non voltare le spalle al muro in segno di rispetto. Anche non ebrei, Papi, capi di stato in visita ufficiale in Israele, non mancheranno di farsi fotografare mentre infilano nel muro il piccolo foglietto ripiegato. In maniera simile, ancora oggi, sono visibili graffiti incisi sul Muro occidentale da pellegrini ebrei. Alcuni si trovano all’interno del “Davidson Center”, un parco archeologico che dopo gli scavi iniziati nel 1967 ha riportato alla luce reperti del periodo del Secondo Tempio, romani, bizantini e del periodo musulmano lungo la parte esterna occidentale e meridionale del Monte del Tempio/ Spianata delle moschee. Uno di questi graffiti si trova nel proseguimento del Muro occidentale vicino ai resti del monumentale Arco di Robinson e riporta il verso del profeta Isaia, 66:14: “E, quando vedrete, giubilera’ il vostro cuore, le vostre ossa fioriranno come erba…”. Gli storici suppongono che questa iscrizione sia stata fatta da ebrei che vissero nel periodo bizantino, entusiasti dopo le dichiarazioni dell’ultimo imperatore dichiaratamente pagano Giuliano l’Apostata, che prometteva agli ebrei la ricostruzione del Santuario distrutto nel 70 d.C. Un’opera mai realizzata perché l’imperatore morì poco dopo nel 363.
Arrivare a Gerusalemme nell’era “pre-voli low-cost” era per molti un sogno irrealizzabile, che solo alcuni privilegiati riuscivano a compiere: da qui la necessità di lasciare un segno tangibile del tanto auspicato viaggio. Chi visita il Santo Sepolcro a Gerusalemme trova un’infinità di iscrizioni in ogni lingua o incisioni di croci lasciate dai pellegrini nei secoli su muri o colonne. Sulla facciata esterna della basilica si può notare su una colonna crociata la fine incisione di “Dandolo”, un appartenente della famiglia dei Doge di Venezia (forse dedicata a Enrico Dandolo famoso per la Quarta crociata?). Sempre da Venezia veniva il “pellegrino-vandalo” che non solo’ lasciò la sua firma sulle colonne esterne della basilica più importante per il cristianesimo, ma si premurò di aggiungere la data ed il suo simbolo: “Piero Vendramini, 1384”.
Rimarranno invece in eterno anonimi tutti gli autori delle migliaia di croci incise nei muri scendendo le scale che portano alla cappella del ritrovamento delle croci; un nuovo studio fatto dall’archeologo Amit Re’em ha portato luce su queste incisioni. Utilizzando una tecnologia 3D l’archeologo israeliano ha notato che esse avevano tutte la stessa profondità e perfino il marchio di chi le avesse fatte: non si tratta perciò di semplici graffiti lasciati da pellegrini, ma di qualcosa di più organizzato. Segni, che a partire dal quindicesimo secolo furono fatti da artisti al servizio dei pellegrini, probabilmente, a pagamento.
Un’ultima incisione degna di nota, ma purtroppo non visibile al pubblico, si trova nella cappella armena di San Vartan: su una pietra lunga 61 centimetri che faceva parte di una costruzione romana precedente all’edificazione del Santo Sepolcro bizantino è inciso il profilo di un’imbarcazione romana e sotto, in latino, la scritta “DOMINE IVIMUS” (Oh Signore, siamo giunti). Quest’iscrizione avvalla l’ipotesi secondo la quale il luogo dove sorge il Santo Sepolcro fosse un luogo sacro e di pellegrinaggio già prima della costruzione della basilica da parte dell’imperatore Costantino nel quarto secolo.
Come cartoline giunte a noi da un lontano passato i graffiti e le iscrizioni ci portano il saluto di chi arrivando a Gerusalemme ha lasciato un segno e, molto probabilmente, ha permesso a Gerusalemme di lasciare un segno dentro sè.
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