Tre novità e un grande classico alla sua quarta stagione
Di cosa parliamo quando parliamo di serie Tv? Su joimag lo facciamo spesso e la prima risposta a questa domanda è forse la più banale ma anche tra le più sincere: parliamo del nuovo modo di raccontare l’attualità. Si potrebbe quasi azzardare una definizione, sicuramente ardita, ma non troppo lontana dal reale, considerando le serie come una forma di giornalismo narrativo. A volte anticipano o trattano di fatti che stanno realmente accadendo, quasi sempre forniscono materiale per approfondire questioni che sono state sulle prime pagine dei quotidiani internazionali e consegnano al pubblico un quadro piuttosto esatto della società attuale. Gli argomenti trattati coprono tutte le categorie classiche del giornalismo: attualità, politica, società, cultura, economia…
Ecco le migliori di cui abbiamo parlato in questo 2022. E se non le avete viste, cercatele sulle piattaforme online. Buona visione!
Nevsu – Ovvero, cosa succede a Tel Aviv se un ebreo etiope sposa un’ebrea ashkenazita? Lo racconta questa serie premiata nel 2018 con l‘International Emmy Award come miglior serie televisiva comica. Poi ha varcato i confini d’Israele approdando su Netflix con il pregio di far conoscere al mondo la comunità degli ebrei etiopi, giunti in Israele negli anni Novanta grazie alla celebre Operazione Shlomo, predisposta per salavare la comunità degli ebrei etiopi durante gli anni del conflitto tra Eritrea ed Etiopia.
Il titolo, “Nevsu”, è ispirato a un termine affettuoso che significa “anima” nella lingua amarica dell’Etiopia, usatissimo come intercalare tra i giovani israeliani che appartengono alla comunità etiope. Come Gili che, pur essendo nato e cresciuto in Israele, viene spesso trattato come un cittadino di “serie B”, perché ebreo etiope. Ma lui, con il sorriso – e molto senso dell’umorismo – affronta la vita quotidiana, con tutte le sue complicazioni – e discriminazioni – da gestire assieme ai suoceri ashkenaziti della moglie. La storia è liberamente tratta dalla vita reale di Yossi Vasa, co-autore della sceneggiatura assieme a Liat Shavit e Shai Ben Attar, che ne è anche il regista. Con grande ironia – e molta profondità – questa serie cerca di mettere in evidenza le differenze culturali della coppia, insieme ai pregiudizi e alle tensioni che il loro matrimonio provoca nelle loro famiglie.
The Patient – Cosa significa essere ebrei americani oggi? Qui si narra in dieci episodi la storia di Alan Strauss (Steve Carell), uno psicoanalista ebreo che viene rapito e rinchiuso in un sottoscala da un paziente, ansioso di risolvere i suoi problemi, secondo lui troppo complessi per essere affrontati in una semplice terapia a cadenza settimanale. C’è però un piccolo particolare inquietante: colui che desidera questo trattamento intensivo è un serial killer, lo psicopatico Sam (Domhnall Gleeson) che non riesce a smettere di uccidere anche se (forse) vorrebbe e vive con la madre, consapevole dei suoi delitti, al piano di sopra. Alan è il terzo psicoanalista ebreo che Sam consulta, quindi si aspetta che stavolta l’analisi serva a qualcosa. Naturalmente il percorso terapeutico non filerà così liscio. Alan si dedica al suo incarico con dedizione, sperando davvero di poter cambiare la natura malvagia di Sam, sapendo che in caso di fallimento, sarà lui la prossima vittima. Ma il punto è proprio questo: a lui non importa di morire perché in parte è già morto dentro. Dopo la scomparsa della moglie Beth, cantrice in una sinagoga liberal, ha assistito inerte alla rottura della propria famiglia, in parte dovuta alla repentina conversione del figlio Ezra a un’ortodossia intransigente. Il problema quindi sarà il perdono, possibile soltanto quando Alan deciderà di uscire dalla depressione e riprendere in mano la libertà per fare giustizia. Anche se in modo completamente diverso rispetto a quello che lo spettatore potrebbe aspettarsi.
Fauda – Quarta stagione. Un superclassico ormai. Ma, come è stato messo in luce dal quotidiano Haaretz, è sorprendente vedere come un prodotto di intrattenimento come Fauda sia diventato uno dei canali di informazione più accurato – se non l’unico – attraverso il quale capire le complesse operazioni di sicurezza e le ingenti risorse governative investite per il controllo dei Territori Palestinesi. In questa stagione, che comincia proprio con l’inseguimento di un gruppo di terroristi palestinesi nascosti a Jenin, l’unità speciale di Doron è accompagnata da esperti della sicurezza super high-tech, telecamere a ogni angolo di strada, un’enorme forza lavoro, specializzata in analisi e decodifica di segnali che potrebbero essere di importanza cruciale. Come spiega Lior Raz, protagonista ma anche co-creatore insieme a Avi Issacharoff, “Uno degli scopi di questa serie è proprio quello di mostrare che, in fondo, israeliani e palestinesi non sono così differenti. Negli anni, abbiamo creato dei ponti non solo tra ebrei e musulmani in Israele, ma anche fuori dal Paese. Ricevo mail ogni giorno da spettatori che ci seguono dall’Egitto, dall’Arabia saudita e da altri Paesi arabi. Allo stesso tempo, sono sempre più gli israeliani che, grazie a questa serie, hanno deciso di mettersi a studiare l’arabo”.
Severance – una scissione dai clichè. La serie, come dice il titolo, tradotto in italiano con Scissione, sceneggiata da Dan Erickson, parla di un esperimento che prevede che l’esistenza di un essere umano sia divisa in due parti, quella in ufficio e quella nella vita reale dopo l’orario di lavoro. Ma c’è di più. A chi accetta viene inserito nel cervello un chip che scinde la memoria: quando si lavora non si ricorda il fuori e viceversa. Gli impiegati della Lumor svolgono mansioni misteriose, stanno tutto il giorno davanti allo schermo di un computer eliminando numeri a caso e camminando per corridoi labirintici kafkiani. Nessuno può dimettersi o trasgredire alle regole della società. Non dico di più, posso soltanto assicurare che la tensione è forte, c’è una buono scavo psicologico e la sceneggiatura è ipnotica anche grazie alla bravura degli attori tra cui figurano un fenomenale Adam Scott, John Turturro e Christopher Walken. Ma la vera scoperta è proprio il regista, Ben Stiller. Che mette in scena un interessante ribaltamento, un paradosso, della figura dell’ebreo americano, mandando un messaggio sicurmente meno banale di come abbiamo percepito l’attore Stiller fino ad ora, almeno qui in Italia.