La cantante che restituisce il suono alla mistica ebraica. In una proposta musicale decisamente unica
La chiave più semplice e diretta per capire il meccanismo di funzionamento della cabbalà (la “tradizione”, ovvero il complesso storico dei fenomeni mistici ebraici) sta, probabilmente, in un concetto della lingua ebraica: davar (דבר), che per l’appunto significa al contempo cosa e parola. La consonanza tra oggetto e discorso, tra reale e ideale, si sviluppa nella percezione e nella convinzione che vi sia una corrispondenza intrinseca tra la parola di Dio e il cosmo. Ciò che Dio dice prende forma nella creazione, sugellando questo patto di causalità tra la parola divina e la sua concretizzazione terrestre. Da qui l’importanza che nella mistica ebraica assume il testo sacro, manifestazione del dettato celeste a portata dell’umana comprensione. In un contesto religioso che, già in antichità, con la distruzione del Tempio (70 e.v.), ha perso il fulcro liturgico del culto sacrificale, la chiave del sacro diviene la parola divina stessa, foggiata nel corpus letterario che prende il nome di Torà. Così, al centro della speculazione mistica saranno le singole parole di cui è composta la sacra scrittura; non solo: ma anche ciascuna lettera assurgerà a segno del rapporto uomo-Dio.
Ma quando si pensa al sapere mistico ebraico, si visualizzano tomi e rotoli vergati in ebraico e aramaico, corredati di schemi e diagrammi in cui le lettere di questo alfabeto danno vita a visioni astratte e simboliche della divinità. Un’immagine, un’impressione visiva – a questo siamo abituati. Ma non dobbiamo dimenticare che lettere e parole hanno pure un suono. E, a ricordarci che parole e cose hanno una voce, ci pensa, dalle profondità ipertestuali di Youtube, Victoria Hanna.
Victoria Hanna è una cantante – anche se ben presto ci si rende conto che la definizione è inadeguata – israeliana, figlia di un rabbino egiziano e madre di tre bambini, che abita nella Gerusalemme charedi, ortodossa. Nel 2015 la sua attività musicale è salita alla ribalta grazie al videoclip di The Aleph-beth song (Hosha’ana), un brano che sfida etichette e definizioni. Nel video vediamo Hanna interpretare simultaneamente una maestra e un’allieva in un’aula scolastica, circondata da altre ragazzine, e intonare con uno stile del tutto particolare e attuale due antiche preghiere del rito di Hoshana, recitate il settimo giorno della festa delle capanne, Sukkot. I due testi, raccolti in un’unica e tumultuosa sessione canora, furono originariamente composti da Eleazar Kallir nel VI-VII secolo, come invocazioni per ottenere il favore della pioggia nella stagione autunnale. Le due preghiere sono caratterizzate da una struttura acrostica, nel senso che ogni verso inizia ordinatamente con una lettera dell’alfabeto. Da qui l’idea di cantilenare l’alef bet, restituendo nuova forza a una pièce della ritualità ebraica.
Il turbine sonoro delle lettere ebraiche si fa ancora più coinvolgente nel secondo singolo di Victoria Hanna, Twenty two letters. Le parole stavolta sono tratte dal Sefer Yetzirà, il Libro della formazione, uno dei classici della tradizione mistica giudaica e uno dei primi esempi letterari in cui s’incontra il principio per cui il mondo è stato creato attraverso le lettere. Il brano, definito in descrizione come “rap cabbalistico”, ci trasporta dritto all’interno della meditazione mistica sulle caratteristiche fonetiche dei componenti costitutivi minimi – gli atomi testuali – del creato, mettendoli in rapporto con gli altri ingredienti di cui si compone il macrocosmo, come parti del corpo ed elementi naturali. Il tutto rappresentato in una performance totale, dove al virtuosismo vocale si aggiungono la gestualità ieratica di Hanna e la cura visuale per gli elementi grafici – le lettere e le parole stesse – ad interagire con chi dà loro voce.
La vocalizzazione sapiente con cui Victoria Hanna interpreta la tradizione ebraica in chiave mistica è frutto di un intenso percorso culturale e personale, che parte da un problema con la balbuzie in giovane età per arrivare allo studio delle tecniche sonore di Mongolia e Giappone. Il canto, per Hanna, cresciuta tra le pareti, talvolta oppressive ma zeppe di libri misterici, di una casa ortodossa, è la forma con cui si manifesta la libertà di esprimersi e sperimentare. Nel suono, sostiene in un’intervista, esiste un elemento fisico che ha il potere di stregare. È questo il mezzo, a dire il vero inusuale, con il quale Victoria Hanna fa proprio un retaggio secolare per restituirlo a un vasto pubblico in tutto il suo suggestivo splendore. D’altronde, cabbalà significa proprio questo: “ricezione” di un sapere tramandato. E ricevere è esattamente prendere in mano qualcosa, lasciarla inevitabilmente modellare dalla propria sensibilità, per poi passarla a un’altra mano. E questo dimostra di fare con maestria Victoria Hanna: attingere ai testi della tradizione ebraica, far luce sul valore dimenticato del loro potere sonoro, consegnarcene una nuova creazione intrisa di magia.
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.