Cultura
Le parole per dirlo. Un ragionamento intorno al politically correct

Se libertà è sinonimo di correttezza linguistica, precisione storica e scavo interiore… La ricerca di un linguaggio capace di curare il pregiudizio e l’odio

Ebbene sì, faccio outing. Io sono per il politically correct. Lo dico senza tanti giri di parole. “Come sei noiosa, come sei buonista. Cosa vorresti dirci, che bisogna proprio stare attenti a tutto. A non definire clandestini i migranti, a dire diversamente abile per chi sta su una carrozzina, perfino a chiamare lo spazzino operatore ecologico? Che barba, che eccesso di zelo, come se si risolvesse qualcosa, come se qualcosa cambiasse con il buon uso delle parole, con gli eufemismi.” 
Forse non cambierà niente ma io la penso come la giornalista e scrittrice Rosellina Balbi quando trentadue anni fa scriveva sulle pagine di Repubblica: le parole malate veicolano pensieri malati. E se la parole sono malate, spetta a noi guarirle.
Ripartiamo da qui, dalle parole. E’ che in Italia c’è una vera propria campagna d’assalto contro il politically correct. Proprio non va giù, indigna, genera mugugno. Noi non abbiamo una tradizione, un’attenzione al linguaggio. Appena viene detto: bada a come parli, si ritira fuori la carta abusata della libertà di espressione. “Io posso dire ciò che voglio”
Così le donne diventano per scherzo vacche in una trasmissione radiofonica fiorentina (si scherza,  ovvio!), il regista Gabriele Salvatores si scaglia contro il gender manager sul set (gli amici americani sono ridicoli e basta anche con questa condanna alla cultural appropriaton), la N word viene usata con piglio baldanzoso sui social da sedicenti non razzisti, con la scusa che “tanto sono loro per primi che si chiamano così tra di loro”. Inutile spiegare che le barzellette sui gay e sugli ebrei le possono raccontare solo i gay e gli ebrei altrimenti diventano offensive e che dire di avere tanti amici omosessuali non depone tanto a favore dell’apertura mentale. Si sentono tutti dei Lenny Bruce in erba:  il comico che combatteva contro il razzismo dell’America anni ’50, e che in un celebre monologo si mise a identificare le persone del pubblico chiamandole kyke, spic e wop, tre termini molto offensivi per indicare persone ebree, ispaniche e italiane. Il senso era che se quelle parole fossero state usate continuamente, anche dal presidente Kennedy, avrebbero perso la loro pesantezza e “nessuno potrà mai più far piangere un bambino nero di sei anni a scuola” chiamandolo con quella che adesso è per gli americani una parola impronunciabile. Ma il desiderio di Bruce, sfociato nella provocazione, era proprio di estirpare alla radice il razzismo e l’offesa, non certo di legalizzarli. 
L’America non è l’Italia né l’Europa, là le minoranze hanno ottenuto con le loro lotte una meritata attenzione. Qui siamo ancora all’ABC. Forse è vero che a volte si sfiora l’eccesso con la critica alla cultural appropriation che bacchetta, che so, un regista bianco che vuole fare un film sugli afro americani. Dovrebbe essere libero di dare una sua interpretazione, altrimenti che cultura è? Però mettiamoci nei panni degli afroamericani. O delle donne. O dei gay. Prima che qualcuno racconti la loro storia perché non la facciamo raccontare ai diretti interessati e stiamo per una volta ad ascoltare in un sacrosanto silenzio istruttivo? Come mi ha fatto giustamente notare mia figlia, 17 anni, quando a una cena qualche giorni fa venne fuori l’argomento. Perché dobbiamo essere noi bianchi a dire qualcosa del razzismo? Stiamo a sentire cos’ha da dire chi prova il pregiudizio tutti i giorni sulla sua pelle invece di metterci in cattedra. Ma chi vive sui social vuole parlare, parlare, esprimersi e farlo “in libertà” (la sua, si intende). Ascoltare: poco. Non c’è niente di peggio del razzismo travestito da leggerezza, da autoconcessione frivola o intellettuale, spesso frutto di superficialità quando non di vera ignoranza. Del libro Un cazzo ebreo della tedesca Katharina Volckmer (posso dirlo in un rigurgito di libertà espressiva? Non un gran che) recentemente uscito per Nave di Teseo abbiamo abbondantemente parlato e scritto anche in questa sede; ma quanti, a parte Elena Mortara, hanno alzato il ditino facendo rispettosamente notare che si dovrebbe nel caso dire ebraico? Io stessa mi sono trovata raffigurata in un’opera letteraria di una nota scrittrice italiana come l’esotica amica Laura, “dai neri capelli ebrei” (sic). Nel testo ero dipinta anche come guerrafondaia e moralmente intransigente, ma si sa, le produzioni artistiche mescolano realtà e fantasia andando a grattare nell’immaginazione. Appunto.
L’immaginario è quello, l’inconscio si nutre di stereotipi offensivi fin da quando è piccino. Se nessuno aprirà mai una discussione sul fatto che dire cazzo ebreo è antisemita – e qui parlo anche ai correligionari, non ho sentito molte voci coraggiose unirsi a quella cristallina di Mortara – di cosa ci lamentiamo? Da lì però gradino dopo gradino si apre il baratro del tutto è concesso. Vai con lo strafalcione, il sentito dire, fino a arrivare alla calunnia, al pregiudizio più bieco. Parti da un cazzo ebreo e ti ritrovi tra i Savi di Sion
Poi ci sarebbe un settore importante e interessante di cui parlare – ma qui mi permetto una deviazione forse scivolosa –  che è la censura all’interno di uno stesso gruppo di persone per amore di un pensiero politicamente corretto ma univoco e limitativo. In questo caso non si tratta più soltanto di parole da non dire ma di grandi temi da non evocare in un certo modo. Ci sono argomenti che non devono essere tolti dalla teca impolverata perché toccarli può fare peggio che meglio per alcuni o addirittura ledere un’immagine sociale rassicurante. Esistono insomma dei tabù. Della Shoah ad esempio si deve ancora parlare senza scavare troppo nel marcio. I parenti scomparsi o quelli sopravvissuti erano tutti santi, vittime, persone meravigliose che ci hanno trasmesso il meglio. Forse una lettura di Dina Wardi, la psicoanalista israeliana potrebbe giovare? (tra l’altro, il suo libro, Le candele della memoria, uno degli studi più interessanti e il primo sistematico sull’eredità dei valori e sentimenti nelle generazioni successive alla Shoah, è introvabile e non è stato ristampato in Italia, un dato assai indicativo). La Wardi parla di quanto si è andato a conficcare  di doloroso, scomodo, aggressivo e violento nelle identità psicologiche e sessuali dei discendenti e di come sia necessario ripulire per trovare una propria voce e una propria storia personale. Mantenendo un equilibrio tra memoria e presente, chiaro, ma anche non precludendosi una verità di elaborazione. Ma di questo non si può ancora trattare liberamente: la vittima è un santino buono, non ha collera repressa e ambivalenze, non ha danneggiato i figli e dobbiamo portarla ad esempio, in un’orgia di retorica tranquillizzante per ebrei e non ebrei che vedono così l’argomento Shoah rimosso e lontano nel tempo. Quando non lo è, è ancora tra di noi; se trascurato va a nutrire paradossalmente lo stesso substrato da cui nascono gli strafalcioni e i pregiudizi. Chiederebbe impegno di analisi e coraggio di scavo autentico nelle budella umane. Ci sarebbe molto da dire, magari in un prossimo articolo. Usando altre parole che anelano a una guarigione.
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

2 Commenti:

  1. Personalmente , pur apprezzando e condividendo l’articolo, non pensò che un bianco non possa fare un film o scrivere sul tema del razzismo o della schiavitu Bisogna valutare l’opera perché comunque il razzismo è la schiavitu ‘ sono un problema che appartiene ai “bianchi” quanto ai “ neri “.

    1. “Noi non abbiamo una tradizione, un’attenzione al linguaggio”.

      Ho smesso di leggere a questo passaggio, perchè sai, sono italiano, e vengo da 3000 anni di letteratura, considerando anche il sincretismo con il mediterraneo.
      Addirittura sono di Milano, e grazie a Manzoni di italiani ne parlo due, e non ti dico il dialetto.
      Non so da dove vieni tu, che non hai questa tradizione, ma scrivi in un ottimo italiano, e mi complimento. Dev’esser dura per te venire da un paese semianalfabeta, il mio non lo è, anzi ha insegnato a parlare al resto del mondo.

      Ora ti saluto, vado a leggere Cielo d’Alcamo, che quelli come te (se capissero cosa scriveva) vieterebbero.


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