Hebraica
Le rivoluzioni di Moshe: un’intervista a Micah Goodman

Riproponiamo l’intervista a Micah Goodman per riflettere sul rapporto tra identità e potere. A partire dal suo libro “L’ultimo discorso di Mosè”.

Questa intervista è uscita sulle nostre pagine nel giugno scorso. La riproponiamo ora, nel pieno del dibattito che sta animando Israele sul matrimonio tra la giornalista Lucy Aharish e l’attore Tzahi Halevi, araba musulmana lei, ebreo di origini marocchine lui. Il tema identitario e il suo rapporto con il potere politico, che qui prende la forma della cronaca rosa, fa riflettere e va indagato con attenzione.

Tanto che Sergio Mattarella lo ha ripreso proprio oggi durante un incontro al Quirinale con i ragazzi della scuole secondarie di secondo grado. “C’è un sistema complesso di pesi e contrappesi, come insegna la nostra Costituzione”, ha detto, “Perché – vedete – la storia insegna che l’esercizio del potere può provocare il rischio di fare inebriare, di perderne il senso del servizio e di fare invece acquisire il senso del dominio nell’esercizio del potere”. Noi diamo voce a Micah Goodman.

 

Una delle più belle scoperte letterarie dell’ultimo periodo è sicuramente “L’ultimo discorso di Mosè”, edito in Italia dalla casa editrice Giuntina. L’autore, Micah Goodman, fa parte del Global Forum of the National Library of Israel, è ricercatore allo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme ed è il direttore di Ein Prat. Nel corso del libro analizza la figura di Moshe alla luce dei cambiamenti enormi che preannuncia nell’ultimo dei suoi discorsi: l’idea che il potere politico vada limitato e che la religione, i riti religiosi, non debbano essere volti a ottenere qualcosa in cambio. Moshe, che intravede i pericoli connessi alla sovranità, cerca di avvertire il proprio popolo. Si colora così di ulteriori sfumature, che parlano al mondo di oggi, alla diaspora come a Israele.

Ho quindi pregato il direttore di Giuntina, Shulim Vogelman, di metterci in contatto e lasciarmi intervistarlo per JOIMag: quella che segue è il risultato di telefonate, scambi di email e una collaborazione con David Bidussa, altro autore di questo magazine.

Quando abbiamo letto il libro, abbiamo subito avuto la sensazione che il libro stesso, il modo in cui è scritto, il metodo utilizzato, siano estremamente interessanti nell’ottica di ciò che JOI vorrebbe creare in Italia. La prima domanda ci sorge quindi spontanea: come ti è venuta l’idea?

Credo di aver sempre percepito l’importanza del messaggio di Moshe, che ci è trasmesso dal discorso che tiene durante le vicende del libro di Devarim. È un messaggio che rivolge a un popolo che sta per entrare nella terra d’Israele, cosa che – capisce Moshe – comporta non solo un cambiamento in termini di località, quindi geografico, ma in termini politici. Vi è un cambiamento di fondo nel loro modo di vivere, e, in quanto israeliano, trovavo interessante interrogarmi su cosa Moshe avesse da dire riguardo all’idea di potere e sovranità. Questo è ciò che mi ha mosso a condividere le mie riflessioni e “scoperte” con i miei concittadini.

All’inizio del libro scrivi che dedichi il tuo scritto a coloro che vogliono iniziare a guardare attraverso la finestra aperta da Moshe sulla filosofia biblica, ma anche a chi vuole comprendere realmente le difficoltà che si vivono oggi in Israele: potresti spiegarci in che senso?

Beh, vi sono tre questioni che vengono poste nel libro di Devarim, che hanno tutte a che vedere con problematiche vissute oggi in Israele e nel mondo ebraico. Una problematica è lasciare il deserto, ed entrare quindi in un mondo civilizzato, che vuol dire essere esposti a culture estranee, cosa che ci pone di fronte a una domanda: come ci relazioniamo con altre culture? Si direbbe essere una questione attuale per gli ebrei nel mondo di oggi, giusto? Come mantenere un’identità forte, fervente, e allo stesso momento aprirsi al mondo? La seconda problematica che sorge dal libro di Devarim è: come si può sopravvivere culturalmente in assenza dei propri leader? Moshe infatti muore. E questa è una delle grandi sfide del mondo ebraico moderno, in cui non c’è una chiara guida spirituale. Fino agli anni novanta abbiamo avuto forti personalità ebraiche: per la maggior parte sono morte, senza un chiaro successore. Ed è esattamente ciò che succede in Devarim, quando Moshe sta per morire, se ne rende conto, e cerca di venire a patti con questa realizzazione. E infine l’ultima questione riguarda il Potere: come gestire il potere, come gestire la ricchezza?

E questo ci porta alla nostra prossima domanda: quali sono le due rivoluzioni di cui parli nel libro?

Moshe, appena prima di morire, appena prima di entrare in Israele, introduce un nuovo modo di pensare la religione, e un nuovo modo di pensare la politica. Riguardo a quest’ultima, parla di un concetto che molti oggi troverebbero intuitivo – ovvero che il potere governativo debba essere limitato: è la prima volta nella Storia che quest’idea viene proposta. L’idea che debbano esserci limiti a ciò che i leader possano fare. È una rivoluzione politica. Tendiamo ad attribuire le origini della democrazia ad Atene antica, e certamente è vero: l’idea che il governo sia scelto dal popolo è un’idea greca. Tuttavia, l’idea che tu ponga limiti all’azione di governo è un’idea ebraica – penso che le democrazie liberali siano il risultato dell’incontro delle due idee, una di origine greca, una di origine ebraica.

Tornando alla prima rivoluzione che ho citato, questa è un diverso modo di pensare la religione. Secondo il libro di Devarim, i riti religiosi non sono riti magici: non offri sacrifici per far accadere qualcosa, in modo da ottenere un risultato, o per controllare la natura. Non fai una danza della pioggia. Al contrario, esegui questi riti come espressione della tua lealtà verso la tua tradizione e resa nei confronti di Dio, il che vuol dire che i riti stessi non esprimono potere. È una rivoluzione estremamente significativa.

Nel libro ho cercato di collegare le due rivoluzioni, dicendo che la politica non conduce alla tirannia e la religione non conduce alla magia.

Si potrebbe dire che avendo uno Stato, si perda l’esperienza della Diaspora, vista a volte come stato d’esilio. Ma se si guarda alla Diaspora non come a un esilio, ma come a una scommessa sul futuro, alla ricerca di un equilibrio tra tradizione e innovazione, a un interesse genuino ad ascoltare il prossimo, quanto possiamo ancora essere pronti e intenzionati all’ascolto, nella sicurezza di uno Stato?

Io credo che sia il contrario. Siccome abbiamo uno Stato è più facile aprirsi a culture straniere e ascoltare il prossimo. Penso che essere Stato di permetta di ascoltare. Siccome la nostra identità non è sotto minaccia in Israele, e quando vivi qui [in Israele ndr] sai che la tua bis bis nipote sarà ebrea, hai una sicurezza che ti permette di aprirti: non vi sono rischi nel conoscere meglio la filosofia cristiana, il buddismo etc., il tuo ebraismo è garantito. Puoi essere quindi più aperto mentalmente: credo davvero che il Sionismo possa creare un ebraismo più aperto.

Credi sia un processo già in atto, o che debba essere ancora messo in moto?

Beh, Israele è un Paese molto complesso [ride, ndr]. Vi sono molte voci diverse: vi sono quelle più chiuse mentalmente, ma ve ne sono anche di molto forti e significative che esprimono proprio questo concetto.

Analizzi poi l’importanza di Moshe guardando a come Giosuè abbia fatto proprio il suo insegnamento, e come Salomone in un certo senso ne abbia preso le distanze: quali sono gli insegnamenti di questi due personaggi per i lettori di oggi?

Salomone è la tentazione della tirannia. Salomone rappresenta come il successo e la ricchezza possono creare l’illusione di merito. Giosuè è l’opposto. Ci esprime come la vita non sia ciò che ci capita, ma l’interpretazione che noi diamo a ciò che ci capita. Penso che la Torah voglia dirci che a volte, quando ci accadono buone cose, questo può rovinarci se non le interpretiamo come dovremmo. Se provi un senso di gratitudine invece, ti attirerai generosità. Giosuè è un esempio di gratitudine, è l’esemplificazione della comprensione di come se ti capita qualcosa di buono non è sempre merito tuo: è Dio. È il senso del limite. Rappresentano quindi due modi radicalmente opposti di reagire a successo e ricchezza.

Quale leader pensi rappresenti maggiormente lo stile di Moshe oggi?

Non vedo nessuno, ma non perché pensi che non ci siano ottime persone. È perché oggi la leadership si esprime tramite i social media, che sono un ambiente non adatto al tipo di guida che era Moshe. Premiano infatti una leadership volgare e ignorante. Quando scriviamo un post molto personale, molto aggressivo o volgare, questo genera traffico. Quando invece ciò che scriviamo è pieno di perplessità e sfumature, non attira attenzione. I social media stanno influenzando il messaggio stesso, il modo in cui le persone pensano. Non mi sembra un ambiente in cui poter coltivare i leader di domani. Stanno rovinando le democrazie occidentali, ci dividono. Sono un ottimista, ma sento che la tecnologia, creata per metterci in contatto, ci sta dividendo.

Verso la fine del libro dici che “forse è arrivato il tempo di Devarim per la terza generazione di israeliani”: cosa intendi con “il tempo di Devarim”? Sei ottimista verso il futuro?

Parlo con i giovani tutti i giorni, sono molto ottimista: in Israele incontri giovani religiosi molto aperti mentalmente, e laici sempre più interessati a ciò che è ebraico. Le due tendenze insieme stanno creando qualcosa di molto potente tra i giovani israeliani.

Hai un messaggio da condividere con i lettori di JOIMag?

Penso che noi ebrei nel mondo, siamo fratelli e sorelle, siamo connessi. E ciò che ci unisce sono idee, libri. Un legame culturale non implica che tu debba essere sempre d’accordo l’uno con l’altro, vuol dire che ti confronti, scambi idee e pensieri. E sono felice di questo legame con JOI, vi sostengo nel vostro lavoro in Italia.


Micah Goodman, L’ultimo discorso di Mosè, Giuntina, 2018
Daniele Cohen
Vice Presidente

Dirigente nel settore finanziario, è stato Assessore alla Cultura della Comunità di Milano, nonché la mente ideatrice del Festival Jewish and the City.


1 Commento:

  1. Perenni alunni alla scuola della vita, ci interroghiamo sul senso degli eventi che compongono la nostra storia, su quelli gioiosi ed ancor più su quelli dolorosi, che hanno più potere a cambiare la nostra interiorità. Il più saggio e vero discernimento è quando, nel profondo della nostra anima, interpelliamo la divinità e, con umiltà, seguiamo la sua indicazione di vivere ed agire.
    Interpretare i segni, nella propria vita, nella vita degli altri, nella vita dei popoli, porta a vivere in armonia con lo Spirito che guida l’intera umanità al bene ed alla concordia.
    Sono felice di questa nuova, più aperta e serena visione del pensiero intellettuale, civile e religioso del mondo ebraico….


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