Cultura
“Le valigie della storia”, un film di Luigi Faccini e Marina Piperno

La memoria, la storia e un archivio meraviglioso di filmati di famiglia

Una frase di Jurek Becker, sopravvissuto ai lager, recita: “Non avere ricordi è come essere condannati a trascinarsi sempre dietro una cassa di cui non si conosce il contenuto. E più si diventa vecchi più la cassa sembra pesante e cresce la voglia di poterla finalmente aprire”.
Ognuno porta con sé una valigia, più o meno impegnativa, soprattutto quando la dimensione storica si interseca con le vicende personali generando traumi. Ormai di racconti di famiglia legati al periodo delle persecuzioni ne abbiamo ascoltati e letti tanti; eppure ogni volta che veniamo a conoscenza di un vissuto, l’emozione è sempre la stessa, l’ansia si rinnova e proviamo immediata empatia, sentendoci arricchiti. È quello che mi è successo assistendo alla proiezione del film Le valigie della storia realizzato da Luigi Faccini e Marina Piperno. Un’opera che si concentra sulla famiglia di Marina e allarga la panoramica a contesti generali, che hanno riguardato tanti ebrei. La cosa straordinaria è che per la realizzazione del film, Faccini e Piperno hanno avuto a disposizione un materiale eccezionale: le bobine in 9 millimetri, frutto delle riprese del padre di Marina, Simone, che abbracciano gli anni trenta e terminano nel dopoguerra. Un patrimonio incredibile, commovente. I ricordi risalgono addirittura al prima, al 1888 quando con i piani regolatori di rinnovamento furono alzati i muraglioni del ghetto (“il nonno Davide dalla finestra faceva la pipì nel Tevere”) e le vecchie case furono abbattute. Gli ebrei  vivono al Portico d’Ottavia, luogo che continua a generare, a causa del rastrellamento del 16 ottobre, inquietudini profonde e rancori mai sopiti che neanche il turismo migliore, quello degli studenti in visita, riesce a debellare. Sfilano poi nell’album familiare cinematografico immagini di matrimoni d’epoca nella Schola Nova. L’abito bianco per il matrimonio della madre, Rachele Toscano, rivestito all’interno di seta frusciante, così leggera che a Marina pare quasi di carezzare il corpo della mamma. Gli uomini sono in tight, le donne sfoggiano abiti all’ultima moda rivelando l’appartenenza alla solida borghesia romana.
È il 1933.  Hitler due mesi prima è stato eletto cancelliere e Mussolini è al potere ormai da undici anni. Ma nessuna ombra sembra oscurare quella felicità. Il 22 marzo 1935 nasce Marina che già da piccola viene iscritta all’Opera nazionale balilla. Come tanti ebrei italiani, molti erano fascisti, nonostante il Tribunale speciale fascista condannasse al confino i dissidenti e l’orrore della dittatura avesse già causato il genocidio delle popolazioni in Etiopia e nella Libia, in nome di quell’Impero nato in modo banditesco e disumano. Tra gli ebrei ci sono i seguaci di Mussolini ma anche i sionisti, gli antifascisti come Umberto Terracini, mandato in esilio, e i Fratelli Rosselli assassinati a Parigi dai servizi segreti italiani. Nel 1938 in seguito alle leggi razziali, Simone Piperno parte per gli Stati Uniti per vedere se è possibile l’espatrio, per provare a immaginare una vita altrove. Ma ottenere la cittadinanza è praticamente impossibile e le quote dell’immigrazione consentirebbero di portare soltanto moglie e figli ma non sua madre. Il piano fallisce. Fino al 1940 tuttavia l’esistenza prosegue tra vacanze e quotidianità, nonostante Marina debba frequentare la scuola ebraica privatamente (“avevo lodevole in storia fascista, che vergogna che ci facessero studiare la storia del movimento che ci aveva espulso dalla società”). Il padre fa l’imitazione del duce, generando risate e Marina rivela a una bambina tedesca in vacanza di essere ebrea, senza paura, orgogliosamente.
È solo nel 1943 che inizia la tragedia, dopo l’8 settembre. Ecco che i tedeschi chiedono agli ebrei romani i famosi cinquanta chilogrammi d’oro e nonostante le promesse passano ad evacuare il ghetto: 1024 deportati. La famiglia Piperno si nasconde dai coraggiosi amici Clelia e Alberto e si conoscono angoscia e ristrettezze: le tagliatelle dure e spesse fatte di farina e acqua, la malattia del fratello che prende il tifo. E infine uno schiaffo, l’unico che Marina abbia mai ricevuto dal padre, perché vuole uscire dal nascondiglio, ritrovare l’infanzia nell’aria e nella luce. Dopo gli amici è la volta del convento dove madre e figli trovano accoglienza. Devono prendere un nome ariano, Pistolesi, e recitare l’Ave Maria, anche se la notte dicono le preghiere ebraiche. E poi la liberazione nel giugno 1944, anche se la furia nazista continua a colpire andando verso nord. Marina ricorda l’eccidio di San Terenzo Monti dove i soldati sgozzarono e dettero fuoco a un gruppo di bambini riuniti per una festa di compleanno. Sant’Anna di Stazzema. I primi processi come quello di Goehring a Norimberga, nel quale il gerarca nega le accuse. Il tornare troppo velocemente al perdono e alla normalità, che strappa a Sandro Pertini la frase: arriverà il giorno in cui dovremmo pentirci di aver fatto la resistenza. E poi il viaggio in America, il mondo del cinema che si apre con i suoi colori e che è anche la prosecuzione di quei filmini girati in nove millimetri, una sorta di eredità e di lascito paterno. Nel 1961 il primo documentario tratto dal “Racconto del 16 ottobre 43″ di Giacomo De Benedetti, recitato da Arnoldo Foa e proiettato in un’Italia poco incline a ricordare le sue responsabilità, già allora.
Marina sente invece il bisogno di ricordare, di portare memoria e inizia un percorso febbrile che la conduce da Fossoli a Auschwitz. I bagagli sono pesanti, sempre più pesanti. “Se tu dovessi scrivere una poesia dopo la tua visita al campo come cominceresti?” chiede un intervistatore. “Con le valigie di chi partiva per un viaggio verso le morte”, risponde lei, mentre scorrono le immagini dei bauli e delle borse dei deportati, con il nome scritto sopra a mano con un gessetto, nella speranza di riprendere possesso dei beni. Eppure si ha la sensazione che nonostante il carico degli anni sia greve, Marina abbia saputo mantenere dentro la sua “ valigia” interiore una sua voglia di libertà, una curiosità per la vita e che dentro quel bagaglio pesante ci sia la capacità di fermare la memoria in immagini indelebili, rendendole eterne, con la leggerezza dell’arte e della creatività.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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