Il libro della psicanalista Anna Barbagallo Toscano è dedicato al rapporto tra la disciplina creata da Sigmund Freud e la sua ebraicità: sia di Freud, sia della psicoanalisi
Uno stimolante volume di Anna Barbagallo Toscano, psicoanalista freudiana, dal titolo La voce dell’altro. Ebraismo e psicoanalisi (Salomone Belforte, Livorno 2022, pp.254), ben scritto e ricco di pensiero ebraico (e non), è l’occasione per rivisitare un tema di nicchia ma dall’indubbia rilevanza culturale, quello dei rapporti tra la disciplina ‘creata’ da Sigmund Freud e la sua ebraicità, intendo sia di Freud sia della psicoanalisi.
Periodicamente sul tema esce qualche studio nuovo, ma le vere novità sono rare da trovare: l’opera omnia freudiana è già stata molte volte “voltata e rivoltata” come un calzino, al fine di individuare tutti i fili o i nodi che abbiano a che fare con il mondo ebraico e le sue fonti. I fatti biografici e storici sono assodati: che Sigmund Freud fosse ebreo, avesse più di un rudimento di formazione ebraica, che abbia scelto di restare ebreo per tutta la vita (in una Vienna fin de siècle che vide molte conversioni al cattolicesimo, tipo Mahler nel 1897 per esempio) e che vi siano affinità tra il suo metodo terapeutico (associazioni di idee, elaborazione del lutto, tiqqun dell’anima), nonché tra i temi esplorati (l’eros e i sogni in primis), e alcuni metodi e argomenti simili ben presenti nella tradizione rabbinica, è fuori discussione. Come resta fuori discussione che i primi, molti discepoli di Freud – perché di vera e propria scuola si trattò – erano tutti ebrei, con la nota eccezione junghiana. Tuttavia, come già scrivevo anni fa nel mio manuale La filosofia ebraica, su “quanto ebraica sia davvero la psicoanalisi e quanto il suo creatore fosse, più o meno inconsciamente, debitore alla cultura in cui era nato è vexata quaestio tra gli studiosi”. Il libro della Barbagallo Toscano illumina i termini di tale quaestio ma, ovviamente, non la risolve. Stimola nondimeno ulteriori riflessioni a margine.
La prima, di metodo, è che occorre stare molto attenti a non forzare la ricerca al fine di trovare quel che si crede di aver già trovato, o di sapere già. L’affermazione della Anna Freud secondo cui la psicoanalisi non può che essere una ‘scienza ebraica’ è da prendersi in senso culturale, non in senso scientifico. Ostinarsi a cercare le “origini talmudiche e cabalistiche del pensiero freudiano” o una supposta “verità storica della religione ebraica” (circa la questione mosaica) può essere fuorviante: porta forse a buone associazioni di idee, ma non ci rivela affatto donde viene la psicoanalisi. L’attività dell’inconscio, pansessualismo a parte, è la sua vera scoperta, ma essa prende senso soltanto nel contesto della medicina e della psicologia ‘positiviste’ nelle quali Freud come medico si formò; costruirci sopra un edificio teorico fu la geniale intrapresa, in seno a quelle scienze, di un medico dalla forte inclinazione umanistica per l’archeologia (egizia) e la mitologia (greca), attrazioni del tutto non originali nell’ambiente viennese in cui operava. Freud non usò mai categorie e miti presi del Talmud e nemmeno della qabbalà per descrivere nevrosi, complessi e psicopatologie. Se avesse voluto, soprattutto le fonti mistiche gliene avrebbero fornito una pletora. Il libro della Barbagallo Toscano rilegge e approfondisce sia fonti ebraiche sia i testi freudiani, ma quando tratta i testi-chiave del pensiero di Freud troviamo ben poco ebraismo e quando scaviamo nelle fonti ebraiche troviamo ben poca psicoanalisi, almeno di tipo freudiano.
Non è una critica, semmai una conferma dell’ammonimento dello psichiatra e psicoanalista romano Gavriel Levi, riportato nella bella postfazione di Davide Assael al volume, circa i rischi “di vedere nell’opera freudiana più ebraismo di quanto effettivamente ci sia”.
In sintesi, meglio fermarsi ad articolare il senso della ‘e’ del sottotitolo, interpretandola a sua volta, per dirla psicoanaliticamente, come un continuo transfert tra un mondo e l’altro, un transfert che, se riconosciuto, deve rispettare da un lato l’alterità della tradizione ebraica rispetto al verbo freudiano ortodosso e dall’altro lato la pluralità – seppur eresiforme – di tale ortodossia rispetto alle dottrine e alle esperienze religiose dell’ebraismo, antico e moderno. Quella ‘e’, se presa come un ponte percorribile intellettualmente in entrambe le direzioni, permette di fare proprio quel che fa il libro stesso: escursioni e immersioni nei due mondi distinti e, a volte, comunicanti: per usare i bei titoli scelti dall’autrice, tra ananke ed ethos, oppure tra Atene e Gerusalemme, oppure tra logos e profezia. Se compiuto con coscienza e acribia, tale andirivieni accoglierà nuove prospettive euristiche, come quelle delle neuroscienze o di una inaudita ‘archetipalità femminile’, che saranno utili a rinverdire il pensiero in entrambe le prassi, quella psicoanalitica non meno che quella ebraica.
Il capitolo IV, che dà titolo all’intero libro o almeno vi allude, ne costituisce forse la chiave più adeguata proprio perché esplora il tema della relazione – che sia malata o alienata o autocensurata – tra maschile e femminile, ossia la questione dell’eros e del desiderio, che da Platone a Lacan ha un suo sviluppo peculiare in forma mitologica e filosofica, e che ben si presta ad essere intrecciato dagli stessi temi, pur descritti con altro linguaggio (il midrash) nelle fonti aggadiche del giudaismo rabbinico. Dal Cantico dei cantici al mito di Lilith, la prima compagna di Adamo, da sempre il giudaismo rabbinico tenta di elaborare l’alterità femminile, che tuttavia resta ancora la meno tematizzata, forse perché non-tematizzabile in quanto, se concettualizzata, subito la fa ‘oggetto’ e quindi la priva del quid soggettivo che per definizione è altro, mai accessibile in forma cognitiva e irriducibile dall’altro dell’altro, ossia dalla mascolinità, dalla soggettività del maschio. Che anche l’ebraismo abbia molto da (ri)pensare su questi temi non va qui dimostrato.
Si torna allora non solo all’opera freudiana Analisi terminabile e interminabile (vedi volume XI dell’opera ominia di Bollati Boringhieri) ma anche all’ermeneutica sempre aperta di quell’opera in chiave di ebraicità, nel solco dello studio proposto da Yosef Hayim Yerushalmi nel suo insuperato lavoro su Il Mosè di Freud, sottotitolato appunto Giudaismo terminabile e interminabile (tradotto da Einaudi nel 1997). Infatti l’ossessione, che non fu solo senile, del grande maestro viennese per la figura di Mosè – una figura ‘mitica’ che però si fa storia nell’eredità dei suoi discepoli e che ad oggi ispira l’esistenza di mezzo mondo (letteralmente) – conferma che l’aspirazione, in Freud, a farsi liberatore e guida per l’umanità soggetta a nuove idolatrie è un originale imprint ebraico a dispetto dell’impossibilità ad essere compiuta, e proprio per il suo essere un compito ad un tempo “terminabile e interminabile”. Non sta al singolo – ebreo o non ebreo – il portarlo a termine, ma nessuno è libero di sottrarsene.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
OTTIMO . HA CENTRATO LA PROBLEMATICA FREUDIANO COME NO ALTRI .LE MIE PIU’ VIVE CONGRATULAZIONI