Cultura
L’ebraismo in Piemonte #4: la contemporaneità

L’ultima puntata di questa indagine dedicata all’ebraismo piemontese fotografa il tempo presente

Che ne è, a conti fatti, ad oggi, dell’ebraismo piemontese? Veniamo al dunque. Partendo da dati più o meno certi. In Italia, ad oggi, dovrebbero vivere circa 35mila ebrei. La stima, tuttavia, è incerta poiché la stessa definizione di «ebreo», al netto dell’orto-prassi e dei contenuti degli accordi che, già negli anni Ottanta, derivarono per la stipulazione dell’Intesa tra Unione delle comunità ebraiche e Stato italiano, non è accetta da tutti. Il rabbinato italiano segue delle linee ben precise (matrilinearità o conversione secondo i dettami dell’ortodossia vigente) che, come tali, dovrebbero delimitare in misura plausibile il campo dell’appartenenza. Tuttavia, nel corso del tempo, così com’era prevedibile, non poche voci critiche si sono levate al riguardo. Se gli iscritti alle diverse comunità territoriali, presenti nella Penisola (quelle come tali formalmente riconosciute sono ventuno; nel caso del Piemonte si tratta di Torino, alla quale afferiscono Acqui Terme, Alessandria, Asti, Carmagnola, Cherasco, Chieri, Cuneo, Ivrea, Mondovì e Saluzzo; di Vercelli, che copre anche la provincia di Novara e la sezione di Biella; di Casale Monferrato), sono poco più di ventitremila, tuttavia non pochi altri rivendicano per sé il riconoscimento della propria ebraicità (per linea di successione o per scelta propria), senza per questo ottenerne riconoscimento.

La cosiddetta «popolazione ebraica allargata» porterebbe, nel qual caso, quasi a raddoppiare la cifra. Sono infatti tali, nei fatti, quanti possono vantare ascendenze ebraiche per il tempo trascorso (in Italia, invero, non necessariamente pochi, anche se in realtà di meno di quanti dicono, ad oggi, di poterlo concretamente fare); coloro che per scelta decidono – pur avendone i requisiti – di non riconoscersi, e quindi iscriversi, ad una Comunità territoriale; coloro che ritengono che la propria identità non sia ascrivibile ad un solo indice di appartenenza, a partire da quello della famiglia d’origine, scegliendo semmai di essere ciò che un tempo venivano definiti come «cani sciolti», ossia correligionari che si muovono autonomamente, senza cercare una sorta di cappello istituzionale. Le motivazioni, come si potrà osservare, sono molteplici. Il numero aumenta ancora di più se si considerano i «giudaizzati», comprendendo in tale definizione anche coloro che, attraverso un complesso percorso personale, non certificato da un tribunale rabbinico, «che studiano e approfondiscono tematiche ebraiche fino a ritenersi “ebrei”, attratti da una cultura che, circondata per secoli dal mistero, appaga il loro desiderio di divino e di misticismo meglio di altre religioni» (Annie Sacerdoti).

In questo ordine di considerazione, entrano molti fattori, tra di loro anche contrastanti, comunque strettamente personali. In quanto, se sussiste da sempre l’antisemitismo come ideologia moderna, si dà anche un filo-semitismo (tuttavia da non intendersi come il reciproco inverso del rifiuto degli ebrei) che spinge quanti si identificano in esso fino al punto di volere essere al pari di ciò e di coloro che costituiscono l’oggetto e il soggetto del proprio interesse. Quindi, vivendo come una potenziale lesione l’essere semmai esclusi da quanto e quanti identificano invece come loro diretti interlocutori.

In Piemonte, le cifre relative alla presenza ebraica, comunque la si conteggi, sono oggi molto contenute. La storia, ancora una volta, ci può aiutare a comprendere certi trend di lungo periodo. Nel 1930, dopo che gli effetti dei Patti lateranensi e la conseguente «legge sui culti ammessi» del 24 giugno 1929 avevano attribuito all’ebraismo peninsulare lo statuto, per l’appunto, di «culto ammesso», si era posto il problema di una rinegoziazione dei rapporti tra Stato fascista e Comunità ebraiche. La «legge Falco» del 30 ottobre di quell’anno, la numero 1731 (intitolata a «norme sulle Comunità israelitiche e sull’Unione delle Comunità medesime»), sanzionava un maggior controllo dello Stato sulla vita delle comunità ebraiche in Italia, ma introduceva anche alcune misure di semplificazione e razionalizzazione che, all’epoca, furono accolte con favore dalla maggioranza degli ebrei italiani. Nasceva così l’Unione delle comunità israelitiche italiane, che solo molti anni dopo (nel 1987), in ben altro contesto storico e politico, sarebbe divenuta l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Ai tempi della legislazione fascista, le comunità regionali piemontesi furono quindi accorpate in quattro entità (Torino, Vercelli, Casale Monferrato e Alessandria), contornate da sezioni ad esse dipendenti, ovvero orbitanti per tutte le occorrenze (non solo di natura religiosa) che si fossero manifestate, di volta in volta. Nel mentre, per ragioni di ordine prevalentemente economico come anche sociale, molti centri ebraici piemontesi si erano già dissolti (ad esempi, nel caso di Caraglio Carrù, Chieri, Moretta, Savigliano). Altri, come ad Ivrea, si erano invece rafforzati, rivelando tuttavia una scarsa continuità nel tempo. Le reggi razziste del 1938, il regime persecutorio e vessatorio, quindi le deportazione, avrebbero pressoché dimezzato l’insediamento ebraico piemontese, portandolo da quattromila elementi a meno della metà. Ad oggi, il dato maggiormente plausibili, sia per ragioni di ordine demografico, civile così come sociale, induce a identificare nella presenza di un migliaio di cittadini italiani ebrei la cifra più verosimile. Per l’esattezza, 1.280, sulla scorta di conteggi forse in parte già superati.

A questo punto della riflessione, il rimando alla dimensione piemontese, specchio a sé stante di una più generale condizione dell’ebraismo peninsulare, assume una carattere che tuttavia va oltre quello dell’insediamento geografico in quanto tale. A quest’ultimo riguardo, il censimento delle località piemontesi con insediamenti stabili, ovvero testimonianze di presenza ebraica, ed eventualmente di sinagoghe (s.), identifica a tutt’oggi l’esistenza storica di ventisei insediamenti complessivi. La quasi totalità di questi luoghi ha visto la costituzione, a suo tempo, vigenti le «interdizioni israelitiche», di un ghetto, spesso costituito da alcuni stabili contigui oppure da una o due vie limitrofe, ovvero da una «casa degli ebrei». Nel complesso, dal XV secolo in poi, gli ebrei del Piemonte hanno risieduto a Acqui Terme; Alessandria (s.); Asti (s.); Biella (s.); Borgo San Dalmazzo; Carmagnola (s.); Casale Monferrato (s.); Cherasco (s.); Chieri; Chivasso; Cuneo (s.); Fenestrelle; Fossano (s.); Ivrea (.); Moncalieri; Moncalvo (s.); Mondovì (s.); Nizza Monferrato; Orta San Giulio; Pinerolo; Saluzzo (s.); Savigliano; Torino (s.); Trino; Varallo; Vercelli (s.).

Nel complesso, dal punto di vista dell’organizzazione spaziale, si tratta dell’esistenza di tre itinerari ebraici maggiori: il primo è quello che collega Torino al Piemonte occidentale (Moncalieri, Pinerolo, Saluzzo, Savigliano, Cuneo, Borgo San Dalmazzo, Mondovì); il secondo mette il relazione il capoluogo con il Piemonte orientale (Carmagnola, Cherasco, Fossano, Acqui Terme, Nizza Monferrato, Alessandria, Asti, Moncalvo, Casale Monferrato, Chieri); il terzo si snoda nel Piemonte settentrionale (Chivasso, Ivrea, Biella, Varallo, Vercelli, Trino, Fenestrelle, Orta). I flussi storici, dal 1400 in poi, sia provenzali che tedeschi, indicano una distribuzione degli insediamenti che parte da Savigliano, Torino e Cirié, per poi passare a Cuneo, Moncalieri, Rivoli. Dal 1440, la presenza è rilevata a Chivasso, Lanzo, Novara, Pinerolo, Biella, Cavallermaggiore, Novi Ligure, Valenza, Vercelli, Cherasco, Casale Monferrato, Alba, Asti, Avigliana, Ceva, Castelnuovo Scrivia, Nizza Monferrato, Ovada, Racconigi, Tortona, Trino, San Salvatore Monferrato, Caselle, Cassine, Castellazzo Bormida, Felizzano, Sale, Sezzadio e Voltaggio.

In età contemporanea l’evento più significativo per l’ebraismo piemontese rimane senz’altro quel processo, già citato in queste note, di «nazionalizzazione parallela» (così identificata da Antonio Gramsci e da Arnaldo Momigliano), che fa sì che all’unificazione delle culture regionali (e sociali) della Penisola si accompagni il pieno e definitivo accesso degli ebrei ai ruoli civili, politici, istituzionali, nella funzione pubblica e nelle cariche amministrative. Nel 1884 il rabbino David Prato parlò al riguardo di «ebrei di religione italiana». In questo quadro di “italianizzazione” dell’ebraismo, che tuttavia si rivelerà ben lontano dal sciogliere le specificità regionali dei singoli insediamenti, si era consumato, anche in Piemonte, il superamento dei ghetti e la loro integrazione nei tessuti urbani così come l’impatto de pensiero politico mazziniano, del repubblicanesimo, del garibaldinismo e del positivismo, fino ad arrivare alla figura di Cesare Lombroso. I due luoghi dell’ebraismo torinese rimarranno comunque, per tutto l’Ottocento, la Mole Antonelliana (quello che è conosciuto a tutt’oggi come il mancato «Duomo degli ebrei», una sorta di costruzione sospesa tra mitografia e megalomania, tra nazionalizzazione e auto-celebrazione, tra plaudente italianità e particolarismo identitario) e la centrale piazza Carlina (una delle “muse inquietanti” di Giorgio De Chirico, uno spazio di cui rese quegli elementi che confluiscono nel suo omonimo quadro realizzato tra il 1917 e il 1919). Di pari rilevanza, nell’ebraismo piemontese di quel tempo, si possono ricordare anche il Collegio Foà a Vercelli, le peculiarità della componente cuneese, il piccolo insediamento sionista, dai tratti perlopiù culturali e filantropici, insieme allo sviluppo del giornalismo ebraico, ed in particolare dell’«Educatore israelita» (1853-1875) e del «Vessillo israelitico» (1874-1922).

È peraltro solo con il primo Novecento che si determina una ricollocazione spaziale dell’ebraismo torinese: da piazza Carlina si innesca una sorta di frantumazione geografica, da via Pio V al quartiere di San Salvario, dalle zone precollinari all’area borghese della Crocetta. A conclusione di queste sparse note sulle, peculiarità dell’ebraismo piemontese, vale la pena di offrire la lunga citazione di quanto Sergio Della Pergola, demografo e tra i massimi studiosi dell’evoluzione dell’ebraismo a livello mondiale, già andava affermando una decina di anni fa quando rilevava come i mutamenti giuridici dell’organizzazione interna alle comunità ebraiche peninsulari, e quindi anche a quelle piemontesi, «non hanno inciso più di tanto su una realtà esistenziale dominata dall’essere una piccola minoranza dalla scarsa massa critica e pari a meno del mezzo per mille del totale di un paese in cui perdura l’immutata confusione semantica fra “ebreo”, “israelita”, “israeliano”. E la tipologia distributiva non è cambiata: l’autosufficiente Roma, semmai più dominante [del passato], l’eterogenea e poco coesa Milano, le combattive ma esangui comunità medie, la tenace e commovente finzione delle piccole e piccolissime comunità. Dagli anni ‘60, l’ebraismo italiano ha incorporato notevoli apporti immigratori e culturali: pensiamo soprattutto agli arrivi di migliaia di ebrei dalla Libia dopo il 1967 – caso esemplare di inserimento a tutti i livelli della partecipazione e delle responsabilità comunitarie – o dall’Iran dopo il 1979 – esempio più di enclave che di fluida convergenza. Si sarebbe potuto pensare a un corrispondente incremento demografico, ma le risultanze sono differenti. La compagine numerica non cambia molto, ma il numero degli iscritti alle comunità passa da circa 28mila nel 1965 agli odierni 25mila. È vero, sono in aumento i non-iscritti, per scelta ideologica o per una marginalità di stato giuridico ebraico personale affermata dalla corrente centrale dell’ebraismo istituzionale e non necessariamente condivisa dai diretti interessati».Ma non è solo un problema di disaffezione. Continua Della Pergola: «Ma il parametro fondamentale dell’invecchiamento – un 24 per cento di persone fra i 18 e i 35 anni contro 28 oltre i 65 – grava pesantemente sulle capacità di funzionamento di una comunità ebraica vitale e sulle sue prospettive future. Questo dato […] si colloca sulla falsariga delle tendenze demografiche recessive generali dell’Italia, e dimostra la grande influenza del contesto societario macro sui percorsi della diaspora ebraica. Un figlio virgola quattro in media non è sufficiente a garantire il futuro di una popolazione, anzi ne anticipa l’ulteriore calo. I profili socio-economici e le mobilità sociali dell’ebraismo italiano riflettono in primo luogo la trasformazione generazionale con la graduale contrazione dei ceti più disagiati che ancora portavano i ritardi delle passate discriminazioni e in particolare l’emancipazione relativamente tardiva della comunità di Roma. Se nel 1965 il 25 per cento degli adulti disponevano di educazione elementare o inferiore, oggi questa condizione è quasi scomparsa (3,5 per cento). È invece più che raddoppiata, dal 16 per cento nel 1965 al 39 nel 2011, l’aliquota di laureati dove permane enorme il divario – oltre sei volte nel 1965, ben oltre il triplo oggi – rispetto alla popolazione italiana totale che, va detto, continua a essere in grave ritardo in confronto agli altri paesi sviluppati». E quali sono gli effetti? La parola ancora al demografo Della Pergola: «Questa promozione nei livelli d’istruzione si è naturalmente accompagnata a un processo di mobilità professionale ascensionale, soprattutto attraverso l’uscita dalle condizioni più modeste dell’attività commerciale al dettaglio, ancora molto diffuse in passato, verso una terziarizzazione e una professionalizzazione compatibili con lo sviluppo generale dell’economia nazionale. Oggi 26 per cento degli ebrei dichiarano uno stato sociale basso-medio basso, il 34 uno stato medio, e il 40 uno stato medio alto o alto. Ma va notata anche una non marginale mobilità generazionale discendente: mentre il 48 per cento dichiarano uno stato superiore rispetto a quello del padre, il 19 dichiarano uno stato inferiore. E presumibilmente legati alla congiuntura economica dell’Italia, sono impressionanti i dati sulla propensione (non identica a intenzione) a emigrare. Fra i più giovani (età 18-25), il 77 per cento non escludono l’eventualità di partire […] Ma anche a 36-50 anni, siamo oltre il 50. Se questo è un barometro della situazione nazionale, la prognosi è grave».

E cambiano anche i modi dell’identificzione. Così continua il passo di Della Pergola: «L’elemento maggiormente innovatore della nuova indagine concerne, ben specificati, i modi di espressione dell’identificazione ebraica. La frequenza alle scuole ebraiche in complesso non è cambiata drasticamente, da 54 per cento nel 1965 a 64 ora, ma è aumentato di 2-3 anni scolastici il numero medio di anni di studio. È aumentata la pratica delle tradizioni religiose che nel 1965 era bassa per circa una metà degli ebrei italiani e alta per meno di un quinto, mentre oggi si ripartisce in maniera più equilibrata fra le varie intensità. La partecipazione al Seder di Pesach rimane, allora come oggi, il rituale più amato e seguito. Del tutto nuovi sono invece i dati sul significato dell’appartenenza e dell’identificazione ebraica dai quali si evince la centralità di un senso di comunione a livello di collettivo locale e di popolo globale e l’importanza percepita della trasmissione dei valori ebraici da una generazione alla successiva. In questo senso, l’ebraismo italiano – mutatis mutandis – non sembra allontanarsi dai paradigmi di molte altre comunità ebraiche contemporanee per le quali l’asse centrale del senso di identificazione ebraica si colloca in una intuizione di appartenenza al collettivo (Jewish peoplehood), mentre costituiscono personali e consapevoli scelte di possibile specializzazione le diverse opzioni offerte dal ciclo ebraico della vita familiare, dalla fede e ritualistica tradizionale, dallo studio, dal volontariato nelle organizzazioni, dall’impegno nella politica, nella società civile e nella lotta all’antisemitismo, e dalla sensibilità e solidarietà nei confronti di Israele e di altre comunità ebraiche nel mondo. L’analisi dei dati […] non finisce certo qui, anzi è imperativo che si approfondiscano le interconnessioni più profonde fra i diversi aspetti della struttura socio-demografica della popolazione e quelli che toccano la cultura e l’identità ebraica. L’anello debole appare essere la Comunità come ente attore e mediatore dei bisogni ebraici percepiti. È essenziale quindi che questo ricco materiale sia materia di studio e di riflessione da parte dei dirigenti delle Comunità e delle altre istituzioni ebraiche perché dai dati emergano elementi di azione per il futuro».

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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