O del rapporto esemplare tra il macellaio rituale e gli animali del creato
Devo confessare un pregiudizio intellettuale, da storica della cultura ebraica che non milita in tale cultura: le razionalizzazioni moderne delle ritualità ataviche mi fanno storcere il naso. Mi pare di sentire puzza di bruciato, odore di apologia anti-storica. Quando, ad esempio, si sostiene che il divieto biblico di mangiare carne di maiale sia in fondo ragionevolmente fondato su ragioni di salute alimentare, mi insospettisco istintivamente per l’applicazione di una categoria moderna (il benessere gastronomico) a un sistema di norme e valori che di questa categoria non aveva coscienza. È vero che il bisogno stesso di razionalizzare regole rituali di cui non si capisce il senso – come quelle del Levitico – è piuttosto antico. Già nel dodicesimo secolo Maimonide, da rabbino e da medico, si era prodigato sistematicamente a chiarire i ta‘ame ha-mitzwot, il “sale” in zucca ai precetti ebraici. Rimane però il fatto che queste sovrapposizioni delle ragioni nostre a sistemi altri suonano imprecise alle orecchie dello storico, che, per deformazione professionale, li esaminerà sotto la sua presuntuosa lente antropologica.
Talvolta, infatti, lo sguardo scientifico pecca di presunzione – ed ecco, appunto, il mio caso.
Parlando di razionalizzazioni postume, l’approccio animalista alla macellazione kasher (tale per cui la tecnica di recisione secca della gola causerebbe meno dolore all’animale) mi avrebbe fatto pensare a una sensibilità piuttosto contemporanea. Con mio stupore, invece, mi sono trovata davanti a una tradizione speculativa sul tema del rapporto tra umani ed animali (da triangolare, di riflesso, con Dio) quattro secoli almeno più vecchia di quanto, per ignoranza, mi sarei aspettata. L’occasione è stata la lettura di una sezione da un trattato ebraico di morale pubblicato nel 1712, lo Shevet musar (Verga del castigo) di Elia ha-Kohen Itamari, rabbino ottomano di stanza a Smirne tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Il capitolo 36, dedicato all’educazione spirituale dello shohet, o macellaio rituale, tinge la questione di risvolti teologici e psicologici inattesi: perché, oltre ai macellatori e ai macellati, entrano in gioco anche le anime dei defunti.
Non possiamo non partire con la creazione stessa dell’uomo e dell’universo. In principio, come già suggerisce Genesi 1,26, Dio creò Adamo, l’essere umano primigenio, a propria “immagine e somiglianza”, assicurandogli la supremazia sugli animali di acqua, aria e terra. L’uomo sarebbe dunque affine al divino per struttura (è un essere senziente, ha intelletto e spirito). E però il primo uomo non resiste a non combinare un guaio – ed ecco serpente, mela e peccato originale. Ed ecco, pure, punizione divina: espulsione dal paradiso terrestre che, in termini metafisici, vuol dire declassamento naturale. Dopo il peccato, dunque, “l’uomo finisce per assomigliare alle bestie”, spiega Itamari.
E, per via di questa natura compartecipata, come può l’uomo uccidere gli animali, propri simili, per nutrirsene? La risposta potrebbe essere il vegetarianesimo sempre e comunque. Tuttavia, somigliare alle bestie non comporta la perdita del potenziale aspetto divino: chi esercita virtù, integrità e pietà riattiva la propria vicinanza di forma con Dio. Di conseguenza, la persona virtuosa, integra e pia ha il permesso di nutrirsi della carne degli animali. Chi invece tende a peccare senza pentirsene – o non segue la legislazione religiosa dei rabbini, come gli ‘amme ha-aretz, la “gente della terra” – dovrebbe astenersi dalla carne, per via di questa essenza ferina condivisa.
Da ciò consegue che il macellaio, oltre a seguire le norme e i procedimenti che assicurano la kasherut – ossia la “confacenza” rituale che distingue lo stile di vita ebraico da quello delle altre “nazioni” – dovrà essere egli stesso virtuoso, integro e pio: in altre parole, somigliare più a Dio che alle bestie che macella. Ma non finisce qui: virtù, integrità e pietà del macellaio non si materializzano unicamente nel rispetto pedissequo delle istruzioni rabbiniche su come macellare in modo kasher, con tanto di preghiere d’accompagnamento e buone intenzioni nel cuore. L’aspetto emotivo, infatti, non è di poca rilevanza: il macellaio deve provare attivamente empatia per l’animale che passa sotto il suo coltello.
Il motivo di questo legame emozionale è più metafisico di quanto si possa pensare. Certo, l’animale prova paura e dolore a essere sgozzato – ma perché prova queste sensazioni così umane? Semplicemente perché, con ogni probabilità, quell’animale – o, meglio, la sua parte carnale e corporea – sarà abitato da un’anima di essere umano che lì sta espiando i peccati commessi in vita. Già dal medioevo, nell’ebraismo si era consolidata la credenza nel gilgul, la “trasmigrazione” delle anime dopo la morte in altri ricettacoli materiali, siano essi umani, animali o inanimati, secondo retribuzione. Vale a dire, alla condotta che l’individuo ha sostenuto in vita corrisponde un eventuale abbassamento di livello, nel regno degli esseri viventi, alla vita successiva. Secondo le ricche trattazioni mistiche che si succederanno su questo tema, a un dato peccato corrisponderà, come contrappasso, la trasmigrazione dell’anima del peccatore nel corpo di una mucca, di un asino, di un cane, o persino di una pietra.
In base a tali presupposti teologici, quello del macellaio si configura perciò come un mestiere assai delicato, non meno importante – e pericoloso, in caso di errori – del cantore di sinagoga o dell’amanuense che trascrive i rotoli della Torah. Così raccomanda l’autore dello Shevet musar:
Perciò, al momento di sgozzare, [il macellaio] dovrà crucciarsi e addolorarsi per la pena che quell’anima reincarnata starà provando, se è presente nell’animale. Dentro di sé dovrà però pensare che l’atto di sgozzamento sia a vantaggio dell’anima dentro all’animale, come a liberarla dalla pena che essa prova a risiedere dentro un corpo bestiale. E, dunque, per quanto egli le causi dolore sgozzandola, la sua intenzione sarà volta al bene di quell’anima, proprio come un medico che, quando causa dolore al paziente praticandogli un salasso, lo fa con l’intenzione di guarirlo dal suo male.
La ragione dell’approccio animalista dell’ebraismo va contestualizzata nel proprio tempo: chiaramente, nei secoli successivi al Rinascimento, la visione del mondo (non solo ebraica) tendeva all’antropocentrismo, ossia all’idea per cui fosse l’uomo il centro dell’universo, i cui componenti (come gli animali) esistevano in funzione della loro utilità agli esseri umani. Basti pensare a Pico della Mirandola, umanista cristiano attivo nel Quattrocento, e al suo celebre Discorso sulla dignità dell’uomo: “Ti ho posto al centro del mondo perché tu possa osservare più agevolmente, attorno a te, ciò che questo mondo contiene”, spiega il Creatore ad Adamo. Non diversamente, la cultura ebraica di quell’epoca – cultura che fu per Pico fonte di grande ispirazione – presupponeva per l’essere umano un ruolo da protagonista all’interno della creazione. E, in effetti, il succitato versetto biblico di Genesi 1,26 offriva un appiglio autorevolissimo per questa concezione. Al tempo stesso, tuttavia, il primato cosmico non significava, per l’uomo-protagonista, mancanza di responsabilità nei confronti del resto della natura, la quale è per l’appunto intessuta di aspetti spirituali ad animare la materia di cui si costituisce il mondo sublunare.
In questo senso, il rapporto con gli animali è esemplare. Essi sono affini all’uomo perché, come l’uomo, rappresentano il corrispettivo carnale della divinità. Non solo: nella loro materialità, accolgono le correnti di spiritualità che attraversano il creato, rendendolo vivo come vivo è il Dio Vivente. Ciò che conta, infine, è il risultato: “Ciascuno sia timorato, rispettoso e di buon cuore con la vita degli animali”, conclude Itamari a chiusura di un racconto eloquente riportato al capitolo 18 dello Shevet musar. La storia è tratta da un’opera di Eleazar Azikri, cabbalista sefardita di base a Safed nella seconda metà del sedicesimo secolo (Sefer haredim, il Libro dei timorosi, pubblicato intorno al 1600):
Si racconta che, in Castiglia, c’era un toro destinato a un rito gentile, per fare un gioco in cui usano picchiarlo e torturarlo in un giorno particolare. La notte precedente, a un signore ebreo venne in sogno suo padre, che gli disse: ‘Sappi, figliolo, che per le mie svariate colpe sono stato reincarnato in un toro – proprio quel toro che è destinato a torture e brutte pene per far divertire la gente cristiana. Perciò, figliolo, riscattami e traimi in salvo, così che possa fuggire nel luogo Tal-dei-Tali prima che mi facciano tirare le cuoia in maniera non kosher. Tu riscattami, e non sparagnare denaro, sgozza quel toro di modo che sia kosher e dallo da mangiare ai poveri figli della Torah. Così mi hanno detto dall’Alto e mi hanno permesso di dirlo a te, di modo che la mia anima passi da una reincarnazione animale a una umana, con la quale potrò venerare Iddio, col Suo aiuto’.
L’aneddoto non ci rivela se quel signore di Castiglia abbia messo mano alla saccoccia e salvato il toro dalla trista morte per mano di un matador, così da consegnarlo alle mani più sapienti di uno shohet che ne preparasse le carni come si deve per il piacere dell’intera comunità, liberando così l’anima del padre dalla sofferenza bovina. Vogliamo proprio sperare di sì. E per festeggiare il lieto fine, abbiamo due opzioni: banchettare di solomillo, o controfiletto, anche noi come quegli ebrei castigliani o, per contrappasso, contemplare un virtuoso, integro e pio piatto di verdure. Che male non farà, a noi e alla natura. Visto che, in fondo, microcosmo e macrocosmo sono la stessa cosa.
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.
Mi pare di ricordare che se l’uomo conduce una vita non corretta la prima reincarnazione “in diminuendo” non sia in un animale, ma in una donna. Come è possibile che un essere che è già “meno di un uomo” possa arrivare a commentare e scrivere sulle Scritture?! Devo forse avere notti insonni al riguardo?l’anima maschile che ritorna in un corpo femminile allora (forse) non è degradata e punita abbastanza!
Credo che il vero spauracchio sia per l’appunto reincarnarsi in un animale proprio perché, a differenza della donna, non si avrebbe il pollice opponibile e quindi scrivere sarebbe difficile. Però magari si riesce a commentare lo stesso.
Bellissimo commento.
Veramente complimenti di cuore
Kol hakavod!!!!!!!