A proposito della parola “dat” e delle sue declinazioni nella storia. Un ragionamento lungo il lavoro di Abraham Melamed
Può aver senso parlare di “religione secolare” e, più strutturalmente, esistono fenomeni sociali riconducibili a tale categoria? È, questo, un interrogativo che iniziò a farsi strada almeno a partire dal tramonto dell’egemonia delle religioni nello spazio pubblico occidentale e che avrebbe trovato nuovo vigore di fronte alle grandi ideologie del ‘900. Domanda che torna ad affacciarsi, in tempi contemporanei, vuoi per quello che viene considerato l’uso politico (più o meno distorto) di alcune religioni, vuoi per quello che altri considerano una declinazione quasi-religiosa di alcuni elementi che sorreggono la nostra quotidianità – la tecnica e la scienza su tutti. Oggi come ieri, al di là delle possibili sfumature, due sono le posizioni maggiori. Da una parte vi è chi contesta la legittimità stessa della nozione di ‘religione secolare’, vedendovi una contraddizione in termini, posto che con il termine ‘religione’ sarebbe necessariamente in questione una credenza in una qualche realtà trascendente (fu questa la posizione articolata dal filosofo del diritto Hans Kelsen, in un’opera postuma edita in Italia per Cortina,). In tal caso il fatto che vi possano essere, presso le persone e nella vita quotidiana, dei comportamenti e un tenore di ‘fede’, analogo a quelli riscontrabili presso i ‘fedeli’ di questa o quella religione, potrebbe al più indicare un’analogia antropologica. Dall’altra vi è chi, proprio a partire da tali analogie, sembra indicare come cifra del fenomeno religioso non tanto una determinata ‘credenza’ quanto il fatto stesso – anzi, bisognerebbe forse dire l’esperienza – di credere, con ciò che può comportare in termini di entusiasmo e specularmente, seppur (né nelle religioni propriamente dette né nelle presunte ‘religioni secolari) non necessariamente, di dogmatismo.
La questione interessa, almeno di traverso, l’ebraismo a partire dalla nota ambivalenza del termine ‘dat’, sospeso tra l’originario significato di ‘legge’ e quello moderno e oggi egemone di ‘religione’. Scrivo ‘di traverso’, poiché è evidente che, anche laddove si parli di legge, è questa una legge che, pur strutturata attraverso le deliberazioni dei Haza’l (Maestri della Mishnà e del Talmud) rimanda, a sua condizione di possibilità prima, al Matan Torah, dove la trascendenza si presenta se non quale “epifania” come – riprendendo un’espressione di David Banon – “logofonia”. L’indagine messa in campo da Abraham Melamed nel suo Dat: me’hok le’emunà, mette tuttavia in evidenza, attraverso un’analisi che spazia dai tempi della Mishnà al sionismo socialista, passando per Maimonide e Joseph Albo, come anche in ambito ebraico, almeno a partire dalla modernità, si siano determinati dei fenomeni riconducibili alla ‘religione secolare’. Grazie a una segnalazione e all’incoraggiamento della morà Anna Linda Callow mi sono occupato, in questi ultimi anni e a ritmi irregolari, della traduzione del volume di Melamed. Per puro caso, proprio quando in Israele e, ancor più, in Europa, tornava ad emergere, con toni quanto mai aspri, il dibattito sulla ‘scienza’ come nuova ‘religione ’ mi trovavo a tradurre alcuni passaggi che si occupavano dell’opportunità o meno di riconoscere in determinati fenomeni secolari, dalle ideologie politiche alla scienza, passando per la shoah, forme di ‘religione secolare’. Com’è possibile che la parola “dat”, atta a designare originariamente lo statuto del regno (Meghillat Ester) sia arrivato ad avere non solo il significato generale (e forse un po’ generico) di ‘religione’, ma anche a poter designare fenomeni tra loro diversi e tutti distanti, se non antitetici, alla nozione tradizionale di religione?
La storia della più o meno costante tensione tra il significato di ‘legge’ e quello di ‘religione’ da attribuire alla parola (in sé invariata nei millenni) ‘dat’, è anzitutto una storia di confronti e contaminazioni linguistiche. A partire dall’origine della parola – posto che, come noto, ‘dat’ è prestito persiano – e lungo il corso dei cambiamenti di significato (legge umana, legge divina, fede, religione e altri), a riflettersi è la costante interazione tra la minoranza ebraica e l’ambiente culturale circostante. Interazione che si manifesta nel linguaggio, termometro delle evoluzioni culturali e concettuali, ma anche interazione determinata dal linguaggio. Come metterà in evidenza Melamed a partire, per esempio, dagli effetti di lungo periodo che l’adozione tra gli eruditi di ambito ebraico delle nuove lingue nazionali (italiano, tedesco, francese) determinerà nell’orientare in una direzione o in un’altra l’auto-percezione che questi stessi, e più in generale il popolo ebraico, avevano di sé e dell’ebraismo.
Nella Mishnà e nel Talmud, il termine “dat” verrà usato, in sostanziale coerenza al significato originario, per designare la legge ebraica (Dat Moshé, Ketubot 7: 6; KeDat Moshè veYehud’e, Yerushalmi, Yevamot 15: 3). Prima ancora della parola persiana “dat”, ricorda Melamed, era un calco dal greco “nomos” (Ke’Nimus Yehudì) ad assolvere tale compito. Due prestiti linguistici che – oltre a segnalare, nei loro differenti accostamenti ai termini ebraici “yehudi” e “Moshè, “il passaggio da una connotazione etnica di legge alla legge monoteistica” – indicano, più in generale, la centralità della dimensione normativa nell’ebraismo.
Tutt’altro uso del termine “dat” sarà fatto, secoli dopo, da Maimonide. Nel Mishné Torah troviamo la locuzione “dat emet” da intendersi come “religione di verità”, o vera religione, e similmente avviene nella Lettera sull’Astrologia, originariamente scritta in ebraico. Il Rambam, infatti, “usa la parola dat secondo quello che ne è il significato più ampio, formulato in accordo alla concezione teologica che gli era propria, e di cui l’insieme dei precetti (mizvot) è una derivazione”. L’elemento normativo è dunque sempre evocato dal termine “dat” ma, per così dire, in seconda istanza, come corollario del significato primo, quello di “religione”. Com’era pervenuto Maimonide a questo differente modo di impiego, che Melamed non esita a definire “rivoluzionario”, di “dat”? La relazione con l’ambiente e la cultura circostante, in questo caso quella arabo-islamica, costituisce la chiave di volta, e il linguaggio ne è ancora una volta spia e fattore corroborante. Negli scritti vergati in giudeo-arabo, “troviamo un uso analogo, e coerente a tale impostazione della parola din (religione)” che verrà “perlopiù, ma non sempre” restituita nelle successive traduzioni in ebraico ricorrendo a dat. Così per la Lettera allo Yemen, nell’originale giudeo-arabo e nella sua traduzione in ebraico, per mano di Shmuel Ibn Tibbon. Qui “la distinzione tra religione e legge, e tra differenti tipi di legge, è esplicita. Nella traduzione “din” è reso con “dat”; “El Sharia’à” è tradotta con “Torah”, e legge umana e pagana – “ne’emusa” nell’originale arabo – è tradotta con “nimus”. Distinzioni linguistiche e concettuali mediante le quali il concetto di “fede” trovava nuovo spazio nell’ebraismo: “il nuovo e rivoluzionario significato attribuito da Maimonide alla parola dat – da legge a fede – si accorda perfettamente” alla concezione di fondo del Rambam dove “l’espletazione dei precetti” si accompagna all’ “intenzione corretta”. Ciò non stupirà posto che l’estrema importanza riconosciuta dal Rambam all’Halakhà, e la sua ineguagliata opera di codificazione, si accompagna all’afflato teoretico-teologico – la contemplazione del Nome, come sarà illustrato nella celebre metafora del Palazzo nella Guida dei perplessi.
A ricondurre il termine (significante) di dat alla sua valenza normativa sarà Joseph Albo. Il passo ‘indietro’ si risolverà, metaforicamente, in due passi avanti: Albo opererà una sistematizzazione concettuale inedita fino ad allora nel panorama ebraico: egli “fu il primo pensatore che definì attraverso un’analisi di carattere formale la nozione “dat” nella sua valenza di legge”. In tale quadro Albo distinse tra la “legge naturale” – dat tivit –, quella umana – dat nimusit – e la “legge divina”, quest’ultima designata in maniera generale come dat elohit, seppur in alcuni passaggi compaia a tal scopo il termine Torah Eloit. È questa la prima volta nella storia ebraica, osserva Melamed, in cui appare il concetto di “legge naturale”, dat tivit: un termine che al locutore ebraico contemporaneo suonerebbe come “religione naturale”. Certo, Ibn Waqar aveva già parlato di “hok tivit” (che letteralmente parrebbe un sinonimo significando anch’essa ‘legge naturale’) ma conferendo a tale termine il significato di legge fisico-biologica, laddove Abo “in accordo al pensiero di Tommaso d’Aquino” le attribuì “per la prima volta nel pensiero ebraico, un’esplicita connotazione politica”.
La seconda tipologia di dat-legge è, come detto, quella posta dall’uomo: “in questo passaggio, ricorre l’associazione linguistica tra la parola “dat” e il calco ebraico di nomos (nimus), che forma il costrutto dat nimusit. Il termine “dat” viene in tal modo a designare la legge nella sua accezione più generale, mentre quello di “nomos” designa il sotto-gruppo specifico di legge proveniente da fonte umana”. Non solo, dunque, “dat” viene ricondotta al significato di legge, ma essa assurge a designare la legge in ogni sua specie.
Se Albo tornava al significato originario di dat-legge, espandendolo, e se molti dopo di lui ne seguiranno le tracce, la concezione di Maimonide, sembra nuovamente emergere, seppur con vesti linguistiche e concettuali differenti, nella modernità europea. Allorché sempre più ebrei, almeno nell’Europa centro-occidentale, faranno proprie, per un processo naturale, le rispettive lingue nazionali. La nuova concezione di ‘religione’, affermatasi in ambito cristiano e in special modo per opera dei protestanti, e che portava a intender quest’ultima come sinonimo di ‘fede’ avente luogo in foro interiore, e perciò in necessaria tensione con gli aspetti normativi, diverrà via via egemonica in ambito ebraico. Non solo ‘dat’ significherà ora ‘religione’, ma si parlerà e si scriverà – dunque, si ragionerà – in termini non più ebraici (in senso stretto). L’ebraismo sarà Foi, Glaube e gli ebrei diverranno israeliti, ossia, fedeli di una confessione. Se ciò avvenne a vantaggio del processo di integrazione ed uguaglianza giuridico-sociale, tuttavia non meno rilevante è l’impatto di trasformazione, e talvolta deformazione, causata da quella che Melamed definisce una “teologizzazione” dell’ebraismo, i cui effetti saranno particolarmente marcati in ambito tedesco.
In virtù di quei processi dialettici che interessano la storia dei concetti non meno che quella dei popoli, delle lingue e delle culture, sarà proprio sulla base di tale “teologizzazione” che prenderà forma – a partire dall’ambito intellettuale tedesco e poi, con svolte ancor più radicali, nel nuovo yshuv (nuovo insediamento ebraico in terra di Israele) – la sua antitesi. In virtù di quella che chiameremo svolta ‘esistenzialista’ la religione diventa, a partire da Buber e fino a Micha Josef Berdyczewski e Yosef Haim Brenner, “esperienza religiosa” (religiosità, religiosität, datiut), denotando non più né un insieme di leggi (dat come legge) né un insieme di principi (dat come religione) bensì un processo organico, un’esperienza vissuta in prima persona. Proprio l’importanza conferita al vissuto soggettivo, declinato in senso collettivo e unita alla rinascita dell’ebraico come lingua parlata, determinerà l’insorgere del concetto – erroneamente attribuito a Gordon – di “dat avodà”, religione del lavoro, destinato a divenir rappresentativo della vita nei kibutzim: “l’immediata recezione del termine composto «religione del lavoro» [dat avodà] e l’uso popolare che ne venne fatto sino, praticamente, ad oggi, costituiscono perfetta esemplificazione del carattere mobile, amorfo che acquisì la parola «dat», fino al punto in cui divenne possibile designare per suo tramite fenomeni ideologici e spirituali del tutto distanti, se non in diretta antitesi e contrapposizione, rispetto al suo significato tradizionale”.
È tutto un insieme di concetti propri al lessico della Tradizione a passare, attraverso l’insediamento di nuova generazione in terra di Israele, da una valenza ‘religiosa’ a una valenza laico-secolare, dove l’impronta ideologica socialista è evidente: “se riusciremo a trasmettere ai nostri figli: cultura ebraica, lavoro ebraico e così via, saremo soddisfatti, questa è la nostra religione». L’esperienza del kibbutz veniva definita come “’nuova religione’, cioè a dire una nuova forma di vita inclusiva dell’intero spettro dell’esistenza dell’uomo, nella materia e nello spirito, esattamente al pari […] dell’l’Halakhà”. Un altro compagno si esprimeva così: «una nuova religione verrà creata, una religione del lavoro, dell’uguaglianza e del [bene] comune”. A partire da un differente contesto sociale e attraverso un differente uso dell’ebraico, lo stesso universo lessicale assume nuova valenza: non già ritorno al significato di legge, non più fede tradizionale, bensì fede nell’opera del proprio lavoro. Religione secolare, dunque? Secondo Melamed “Ci troviamo così di fronte a un ulteriore esempio del processo di secolarizzazione (laicizzazione); termini originariamente religiosi, transitano verso ambiti di senso propri a differenti ideologie moderne: «messianismo», «redenzione», o «religione» [dat], subirono una trasformazione radicale, pur preservando qualcosa della ”freschezza” della loro originaria connotazione di fede. Il sionismo, come il socialismo, passarono ad essere, secondo il termine ossimorico di Durkheim «religioni secolari» (Secular Religion), o «religioni civili» (civil religion)”.
Anche in ambito ebraico si ritroverà dunque quella paradossale convivenza tra ateismo e afflato religioso plasticamente resa dall’’inno del movimento dei lavoratori, l’Internazionale, che se nella sua originaria versione francese recita “[…] Ni Dieu ni Cesar […]” in quella italiana non esita a ricordare che “[…] una fede c’è nata in cuor”. Così, se la storia e l’esperienza ebraica mostra come condizione socio-culturale e impiego del linguaggio possano condizionare l’auto-percezione dell’ebraismo e la nozione di ‘dat’, essa mostra anche, in contro-luce come, eventualmente con contenuti differenti e finanche antitetici, processi analoghi possano interessare e investire la nozione di ‘religione’ tout-court, vuoi trasformando senso ed esperienza delle religioni esistenti, vuoi portando differenti fenomeni a collimare con ciò che si intende con religione.
Si comprende, dunque, perché Melamed si occupi, a partire da un attento studio lessicografico, della ricorrenza in ebraico moderno di nozioni quali “religione della shoah” o “religione della scienza”. A prescindere dalla domanda, da cui siamo partiti, se sia o meno concettualmente legittimo parlare di ‘religione secolare’, resta il fatto che tale termine viene così impiegato da molti, ossia che tale concetto venga, in una declinazione o in un’altra, esperito. Certo, mentre il termine di “religione del lavoro”, dat avodà, veniva utilizzato in senso positivo, quasi manifesto di un progetto da realizzare, i termini “religione della shoah” o “religione della scienza” vengono usati, piuttosto, in senso critico. Ancora in senso critico, e finanche come argomento di condanna, si parlerà di “religione secolare” con riferimento a questo o quel regime politico di cui si indicherà nel carattere ‘religioso’ la spia di una tendenza se non totalitaria, comunque dogmatica. Bisogna dunque fare particolare attenzione alle distinzioni. Con riferimento ai termini di “religione della shoah” o “religione della scienza”, la critica non viene – o almeno, non necessariamente – da coloro che negano la shoah o la validità della scienza. Anzi. Nel primo caso, al contrario, viene rivolta da quanti, anzitutto in ambito ebraico, vogliono evitare un uso distorto della shoah, una sua resa, appunto, a culto. Analogamente si potrebbe dire rispetto al termine “religione della scienza” ove si voglia metter in evidenza il rischio, sussistente d’altronde per ogni fenomeno, giocoforza se essenziale al nostro benessere, di una sua percezione idolatrica o, peggio, di una sua espressione distorta, o strumentalizzazione. Infine, l’interrogativo sulla legittimità concettuale di ‘religione secolare’, prima messo tra parentesi per lasciar i fenomeni mostrarsi, ritorna, alla maniera di quel “moscone fastidioso” come Aristofane apostrofava Socrate, per invitarci a comprender di questi fenomeni la veritiera natura: è lecito parlare di ‘religione’ per fenomeni secolari, tra loro così differenti? E, ancor più alla radice, cosa si intende con ‘religione’?
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.