Analisi del tempo attuale
Vorrei parlare di populismo.
Usato dai media come arma contundente contro chi si oppone alla gestione del potere costituito, il termine “populismo” è diventato a tutti gli effetti rappresentativo di un modo di concepire la democrazia. Ovvero, non siamo di fronte all’annullamento della democrazia formale, ma alla radicale trasformazione di quella sostanziale. Se anche la retorica del linguaggio populista invita a distinguere tra la “moralità” del popolo e l’“immoralità” dell’elite, la conseguenza di questa distinzione implica una trasformazione dell’agire politico che sta a fondamento della politica, ovvero della relazione tra persone (delle opinioni che merita prendere in considerazione, oppure no). Come sempre accade in politica la trasformazione sostanziale riguarda non solo le cose, ma soprattutto le relazioni tra persone.
Nella stagione che stiamo vivendo forse è opportuno distinguere tra ciò che è nuovo per davvero e ciò che invece si ripresenta.
Non credo che quella cosa che si ripresenta sia per ciò stessa facilmente smontabile. Anzi il fatto che si ripresenti e si accrediti come nuova dice di due aspetti: 1) viviamo in un tempo in cui abbiamo poca memoria del passato; 2) siamo più impegnati a dichiarare che il nuovo è nuovo per davvero, piuttosto che prendere serenamente atto che molte cose che viviamo nel nostro presente sono in realtà profondamente radicate nel nostro passato.
Perché è importante sottolinearlo? Perché forse è più facile prendere le misure con qualcosa che si ripete, piuttosto che con una novità. Ma anche perché se ciò che abbiamo di fronte fa parte di una consuetudine, allora ciò che dobbiamo valutare non è un fenomeno unico, ma la sua ciclicità. In questo caso, allora forse è più significativo chiedersi perché un dato si ripeta.
Dunque, siamo immersi in un’ondata che molti classificano come populista, o come affermazione del populismo.
Possiamo certamente distinguere questa stagione da altre e rilevare come questa si presenti corazzata di una grande paura del futuro e, soprattutto, di una difesa di un passato prossimo che rivendica come insoddisfazione.
È un primo dato, così come si potrebbe rilevare che i populismi tradizionali crescevano soprattutto nelle realtà di periferia, avevano una forza nel ceto medio e nelle fasce intermedie per classi di età, mentre l’attuale fenomeno che si autodefinisce come “antipartito” viva delle passioni di giovani generazioni che esaltano l’istanza movimentista.
Partito e movimento
Ora facciamo un secondo passo in avanti e chiediamoci che cosa testimonia questo presentarsi come movimento (fortemente antisistema). Il primo dato riguarda la pretesa di essere “tutto”. In questo senso i partiti sono l’opposto di un movimento che si presenta come antipartito.
Perché:
i partiti non sono fazioni;
i partiti sono corpi intermedi che rinunciano alla loro atavica ambizione di farsi Tutto e accettano di essere una parte del Tutto (cioè: una parte tra le parti);
infine, i partiti sono canali di espressione capaci di dare rappresentanza istituzionale alle richieste dei cittadini e di esercitare pressione affinché tali richieste si traducano in politiche.
Dei tre punti quello che qui per ora è importate è il secondo (ma senza trascurare né il primo, né il terzo).
Possiamo criticare i partiti per la loro dimensione mastodontica, per la loro struttura, per il fatto che spesso sono insiemi di apparati poco efficienti. Tutto quello che vogliamo. Ma una cosa è essenziale: in democrazia i partiti non ambiscono a essere il Tutto. Sanno che esiste un limite e che valicare quel limite implica mandare a gambe per aria il sistema stesso che ne legittima la reciproca concorrenzialità e che dunque fonda anche la loro rispettiva legittimità.
È un aspetto importante perché è proprio intorno a questa conseguenza che si origina un aspetto essenziale dell’istanza movimentista dell’antipartito come fascino per una visione totalitaria della società. Su questo aspetto giustamente insiste David Ragazzoni, un giovane studioso della Columbia University, in un suo saggio dal titolo “Partitocrazia”: antipartitismo e democrazia dei partiti. pubblicato nel volume Populismo di lotta e di governo a cura di Manuel Anselmi, Paul Blokker e Nadia Urbinati per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
I precedenti
Questa dimensione ha un precedente nella storia italiana. Ha un precedente prossimo, ma anche uno lontano. L’ascesa dei partiti antipartito, che costruiscono la propria legittimità sulla promessa di restituire lo scettro al popolo spodestato dalle oligarchie partitiche, ha rappresentato un dato che nella storia italiana è emerso al momento della crisi della cosiddetta Prima Repubblica, nei primi anni ’90, e poi più recentemente con il consenso riscosso dal Movimento Cinque Stelle. Tuttavia, in Italia la presenza di un partitismo antipartitico ha radici lontane. Come ha ricordato nel 2012 Salvatore Lupo nel suo libro Antipartiti (Donzelli) la visione di una politica nuova, non più infettata dai partiti, costituiva la promessa già del Fascismo.
Niente di nuovo si potrebbe dire.
Ma questo elemento, insiste Ragazzoni, va collegato a un diverso dato che fa dell’innamoramento dell’antipartito, e dell’istanza movimentista entrambe proposte come una passione di questo nostro tempo, due lati di uno stesso tipo di crisi della politica, molto più radicale.
È il 1930 e un giovane giurista tedesco appassionato di sociologia della politica, Hermann Heller (1891-1933) – pubblica un breve scritto (15 pagine in tutto) che meriterebbe una lettura attenta. Soprattutto in questo nostro tempo. Si intitola Il genio e il funzionario della politica.
Spiega Heller che il funzionario della politica è colui che crede che la politica si compia in automatico e che dunque sia sufficiente educare il popolo all’interesse pubblico perché questi nel tempo impari ad amministrarlo. La politica diviene così un fatto tecnico. Governare è solo l’acquisizione di una procedura che come tale diventa patrimonio politico fino a fare in modo che la politica non solo si riduca ad amministrazione, ma, appunto nel suo diventare cosa, possa essere esercitata da chiunque.
La religione politica del genio costituisce il polo opposto dell’ideale del funzionario, precisa Heller. Così se l’idea dell’automatismo delle masse persegue la completa dipendenza del funzionario dal raggruppamento di potere che lo controlla; la fede solleva il genio su tutte le necessità materiali e ideali della società.
“La religione del genio – scrive Heller – fa invece sorgere l’unità statale nella molteplicità senza alcuna comunità ideale dei valori o di conformità relativamente obiettiva alle leggi, ma solo e soltanto grazie a un princeps legibus solutus. E le appare come utopia ogni fede nell’idea e nella ragione della società, in particolare nella forma attuale della filosofia della vita. Il suo credo pessimistico è l’homo homini lupus. Nel parlamentarismo e nello Stato di diritto essa non può veder altro che il vincolo del gran capo alla volontà delle masse, ai troppi che non sanno quello che vogliono. Il parlamentarismo costringe il grande uomo alla discussione, a negoziare e la divisione dei poteri frena la sua azione geniale. (….) Egli è attivista per amore dell’attività; il movimento violento è tutto per lui, lo scopo nulla. Tutte le ideologie, da Cristo a Marx, gli sono indifferenti e hanno il solo scopo di condurre l’uomo forte al potere nella circolazione eternamente uguale delle élite e rendergli possibile il governo come improvvisazione geniale”.
La domanda di genio, così come la sua offerta sulla piazza della politica, di conduzione leaderistica e di affidamento fiduciario da parte delle opinioni pubbliche suonano lontane dalla scenografia descritta da Hermann Heller nel 1930? Dove stanno le differenze o le distanze?
È superfluo chiederselo?
Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.