Hebraica Nizozot/Scintille
L’eredità del Gaon di Vilna a 300 anni dalla nascita

Breve storia del geniale studioso che cercava l’armonia

Eliyahu ben Shlomo Zalman (1720-1797), meglio conosciuto come il Gaon [il genio] di Vilna e citato secondo l’acrostico HaGRA (Ha-Gaon Rabbi Eliyahu), è stato il leader e l’ispirato promotore del movimento dei mitnagghedim [gli oppositori] ovvero quanti combatterono la diffusione dei cambiamenti liturgici e dei nuovi approcci alla vita ebraica da parte del movimento chassidico nell’Europa orientale degli ultimi decenni del XVIII secolo. Non di meno, ridurre la sua personalità e la sua influenza a questo ruolo di oppositore dei chassidim significherebbe disconoscere la sua originalità di pensatore innovativo proprio nell’ambito più intimo e costitutivo dell’identità ebraica: lo studio della Torà e l’interpretazione dei testi della tradizione rabbinica e qabbalistica, uno studio svolto con una metodologia attenta alla filologia e alla dimensione critica che anticipava la consapevolezza ermeneutica tipicamente moderna. Uomo del suo tempo, era inoltre un lettore di letteratura scientifica, in particolare di astronomia. Come lo definì Louis Ginzberg, “fu l’ultimo teologo del rabbinismo classico e il meno influenzato dalla filosofia greco-araba; pertanto la sua teologia può giustamente vantare di essere null’altro che rabbinica”.

Nato nel villaggio di Seltz in Lituania, il Gaon di Vilna proviene da una famiglia già rinomata per santità di vita e dedizione allo studio. Sposatosi come consuetudine a diciotto anni, visse studiando nella casa del suocero a Kaidan per poi compiere alcuni viaggi nella regione e stanziarsi infine con la famiglia nella città di Vilna, dove ottenne un vitalizio grazie a un lascito per studiosi istituito dal filantropo Moshe Rivkes. Fino ai quarant’anni si isolò e condusse vita ascetica. In seguito accolse attorno a sé un ristretto gruppo di studiosi, che vennero ad animare il suo bet hamidrash. Tra costoro spiccano i nomi di Pinchas di Polotsk; Menachem Mendel, Israel ben Shmuel e Simchà Bunem di Shklov (gli ebrei di questa città ebbero un ruolo determinante nelle vicende che videro il Gaon di Vilna opporsi al chassidismo); Jacob Krantz, noto come il magghid [predicatore] di Dubno; Moshe Shlomo di Tolchin e Chayim di Volozin, forse il più noto dei suoi associati e colui che contribuì maggiormente alla diffusione della fama del genio di Vilna attraverso la yeshivà di Volozhin.
Un aneddoto comproverebbe la fama di questo maestro oltre gli stessi confini della Lituania: nel 1756, allorché il rabbino Jacob Emden accusò il collega Jonathan Eibeschutz, della comunità di Amburgo, di essere un seguace nascosto del falso messia Shabbatai Zvi, Eibeschutz si rivolse proprio al Gaon di Vilna come difensore e arbitro super partes nella contesa; sebbene egli declinasse l’arbitrato, il fatto è attestato da alcune lettere e conferma il prestigio del giovane maestro lituano. Un altro evento significativo della sua biografia è il tentato pellegrinaggio in terra d’Israele, programmato per l’anno 1783 e che tuttavia non si realizzò. Nel biennio 1788-89 pare sia incorso in un caso giudiziario e sia stato arrestato in merito alla vicenda di un giovane ebreo abbiente della comunità, che aveva scelto di convertirsi al cristianesimo e ritirarsi in convento, e venne da qui sequestrato dalla sua famiglia urtando la sensibilità delle autorità politiche, che si rivalsero su alcuni esponenti di spicco della stessa comunità.

Rabbi Eliyahu ben Shlomo non scrisse i suoi insegnamenti né pubblicò in vita le note, spesso enigmatiche e di difficile decifrazione, con cui chiosava i testi studiati. Ma già a partire dal 1798 i suoi discepoli cominciarono a pubblicare i commenti del maestro ai testi biblici, alla Mishnà e alla Toseftà, ad alcuni trattati talmudici sia del Talmud Bavli sia dello Yerushalmi, ad alcune raccolte di aggadot e di midrashim, allo Shulchan ‘aruk (testo noto come il Biur haGra), allo Zohar e al Sefer yezirà, ai Tiqqunè zohar e ai Tiqqunè zohar chadash. Spesso si tratta di annotazioni e segni a margine, referenze e rimandi al vasto corpus rabbinico. Le sue opere più diffuse sono i commentari ai Proverbi, al trattato mishnico Pirqè Avot e all’haggadà di Pesach. Una prima antologia di testi (il Ma‘asè Rav) fu compilata da Issachar Ber di Vilna e ivi stampata nel 1832. Ma il suo insegnamento riverbera soprattutto nelle opere di suoi discepoli, a cominciare dal Nefesh hachayim di Chayim di Volozhin. L’abilità del maestro nell’arte esegetica ed ermeneutica applicata ai testi ebraici trova riscontro in queste parole di Israel ben Shmuel di Shklov: “Sapeva dare centocinquanta interpretazioni di un solo versetto del Cantico dei Cantici”, che pur nella loro vena agiografica rendono l’idea della profonda stima con cui veniva valutato il lavoro di questo studioso. Il suo ideale resta quello tradizionale dello studio della Torà per se stessa, Torà lishmà. Nelle istruzioni lasciate ai suoi figli si legge:

Lo studio deve essere diretto alla verità e colui che si dedica allo studio deve evitare di porsi difficoltà fini a se stesse. Costui riconosca la verità anche se viene dal più giovane dei suoi allievi, e si ricordi che il desiderio di esibirsi intellettualmente non ha nessun valore se confrontato con la verità. Solo così lo studioso riuscirà a ottenere la conoscenza che è lo scopo dei suoi studi.

Alla luce di questa concezione dello studio, come ricerca diretta e senza autocompiacimenti della verità, va compresa l’avversione del Gaon lituano nei confronti della pilpulistica ovvero di quella dialettica – pilpul, in ebraico – che sembra avere come scopo solo se stessa e non la verità. A questo scopo è fondamentale che lo studioso si affatichi sulla grammatica ebraica, perché nessun progresso nello scavo dei significati testuali è sicuro se lo studioso manca di una vera consapevolezza linguistica e di rigore esegetico. A suo dire, molte opere sono giunte a noi per mano di copisti e contengono errori grammaticali, omissioni e contraddizioni: esse possono essere corrette solo se si conoscono le fonti su cui si basano. Da qui l’audacia del Gaon di Vilna nell’evidenziare lacune nei testi da lui studiati, spesso con semplici note a latere; da qui la divergenza di opinioni con grandi maestri come Yoseph Caro, autore dello Shulchan ‘aruk, o come Moshe Isserles, forse il più autorevole halakhista del mondo ashkenazita, o come Yizchaq Luria, grande autorità nella mistica. Spesso il Gaon di Vilna emenda anche passi talmudici giunti a noi in forma oscura o incorretta, allo scopo di pervenire a una comprensione dell’halakhà più precisa e dunque a una comprensione della stessa Torà più organica, armoniosa e unitaria. Per il Gaon di Vilna la distanza storica non è un ostacolo alla coerenza del pensiero halakhico né al lavoro ermeneutico dello studioso, che deve assumere come criterio guida l’unità della rivelazione divina e la profonda consonanza tra Torà scritta e Torà orale, tra halakhà e qabbalà, tra maestri antichi e maestri moderni. Come ha scritto Alan Brill,

Il pensiero monistico del Gaon riconosce un’unica verità, e pertanto accetta la qabbalà nel suo insieme senza avvertire il bisogno di difenderla davanti ai criteri della filosofia, accogliendo al contempo ogni elemento filosofico che non sia in contraddizione con la qabbalà.

La qabbalà per il Gaon di Vilna è una seconda via, accanto allo studio del Talmud, per meglio capire i testi rivelati e per meglio penetrarne i significati reconditi – i ‘segreti della Torà’ – al fine di assaporarne la bellezza interiore. Unificare la Torà scritta e orale, udibile e silenziosa, quella già data al Sinai e quella che il profeta Elia ‘aprirà’ al suo ritorno nell’era messianica, resta il compito degli zaddiqim, dei giusti, e dei chakhamim, i saggi: grazie a loro i quattro livelli di interpretazione della Torà (peshat, remez, derash e sod) convergono in unità, come le quattro lettere del Tetragramma diventano la realtà sacra e impronunciabile del Nome divino. Ecco perché per Rabbi Eliyahu ben Shlomo di Vilna la devequt o unio mystica non è altro che una vita interamente dedicata allo studio, allo sforzo di ragione e volontà per penetrare i segreti del testo ‘animato’ dalla sua interpretazione.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.