Cultura
L’interregno

Donald Trump, ostacolando la transizione, frantuma la credibilità dell’insieme delle istituzioni federali dinanzi alla popolazione

Di qui al 20 gennaio 2021, giorno del giuramento del presidente eletto Joe Biden, se ne potrebbero vedere ancora delle belle. Ne è segno, tra le altre cose, anche una certa afasia della grande stampa, che perlopiù ha da subito accreditato e certificato la vittoria di quest’ultimo, salvo poi dovere assistere allo stillicidio in corso di cause legali e di mosse e contromosse tra l’attuale inquilino della Casa Bianca e la buona parte restante del mondo politico ed istituzionale statunitense. Di certo il periodo di transizione che si gioca tra l’esaurimento del mandato del presidente uscente e l’avvio di quello entrante, non avverrà sotto l’egida del fair play istituzionale. Va da sé che non si tratti esclusivamente di una questione di cortesie e di gentilezze che pure non guasterebbero. Al momento, in gioco è soprattutto l’interregno tra una Amministrazione e l’altra.

Non è solo un arco di tempo a sé ma un processo dove, sancendo il cambio alla guida politica della massima istituzione degli Stati Uniti, se ne garantisce invece la sua continuità istituzionale. Il presidente uscente, ostacolandone il prosieguo, non rompe solo con i cliché costituzionali – l’insieme delle procedure dovute, non necessariamente sancite da leggi ma innervate in consolidate consuetudini che di fatto hanno la forza di norme – ma anche con quella linearità che è una precondizione non tanto per l’investitura formale dell’Amministrazione entrante bensì per la credibilità dell’insieme delle istituzioni federali dinanzi alla popolazione. Un capitale, quest’ultimo, più importante della stessa presidenza. In tutta probabilità è anche questo uno degli obiettivi di un Donald Trump non solo recalcitrante ma deliberatamente osteggiante. Non l’unico ma neanche, per forza di cose, quello secondario: si tratterebbe, nel qual caso, di abbinare al diniego personale verso l’«imbroglione Joe», usurpatore della presidenza, anche la delegittimazione delle cariche istituzionali federali.

Non è in sé una novità: lo stile politico di Trump ha da sempre fuso profilo istituzionale e proprio contorno politico all’esasperata soggettività della sua figura, dichiarando che senza quest’ultima nessuna istituzione in sé sarebbe ancora legittimata ad operare. Come neanche lo stesso “fare politica”. Nel mood populista e sovranista, quello che conta – infatti – non è la costanza dei poteri costituiti, garanti e al medesimo garantiti dalla Costituzione, bensì il leader che ne ricopre da sé la figura di vertice, sintetizzandone le qualità più elevate. La fusione tra istituzioni ed individualità è quindi totale, enfatizzando la premessa che ciò che fa la differenza non sia il sistema degli enti collettivi e di rappresentanza (e quindi la loro sindacabilità d’operato attraverso il vaglio collettivo), il circuito dei «pesi e dei contrappesi», ma il “capo”, che incarna come tale l’anima profonda del «popolo», sostanzialmente irriducibile a qualsiasi intermediazione.

Quando il presidente uscente dichiara come inesistente, poiché truffaldina, la vittoria del suo avversario, fa quindi un passo più lungo di quello che si può desumere dal solo riscontro diretto e immediato delle sue stesse parole. C’è qualcosa di più profondo. Poiché afferma che non è solo Biden ad essere «unfit», «unable» in quanto «cheater», «swindler», «trickster», ma che sono le stesse istituzioni, nel momento in cui riconoscono l’esito elettorale, ad avere “tradito” la volontà popolare. Che a sua volta è tale perché si riconosce solo ed esclusivamente nella persona di Trump. Inutile invocare la pur consistente dose di egocentrismo che un tale comportamento porta con sé. Il baricentro, semmai, sta in ben altro, ovvero nella delegittimazione della democrazia rappresentativa a favore di una sorta di democrazia recitativa, nella quale la libertà di scelta è nei fatti annullata dall’assoluta indipendenza di comportamento del leader populista una volta che questi venga eletto. Ovvero, in questo caso, escluso dalla vittoria. Per un tradimento.

L’imbroglio, quindi, non è identificato da Trump nel solo presidente democratico, venendo invece denunciato soprattutto nella presunta frattura che le stesse istituzioni alimenterebbero dal momento in cui non si piegano all’esclusiva volontà di colui che ne è invece il loro “capo naturale”. Non per selezione e mandato temporanei bensì per “volontà” assoluta, come tale non solo insindacabile ma anche e soprattutto immodificabile. Un tempo era quella divina, adesso è quella ascritta ad una collettività elettorale, raffigurata come entità sovrana non in ragione dei processi storici e politici che l’hanno portata ad essere tale ma per una sorta di investitura a tratti quasi mistica. Come tale astorica, fondata su una specie di essenza perpetua, che non può essere sottoposta ad alcun vaglio. Il nocciolo populistico di qualsiasi colore politico sia, nel passato al pari del presente, sta proprio in questo passaggio. Che sancisce, tra le altre cose, non solo l’inessenzialità ma addirittura la dannosità di ogni forma di intermediazione e, con essa, delle istituzioni che se ne incaricano nell’intrico dei poteri legali e del sistema dei corpi intermedi invece propri di ogni democrazia autentica. Il “capo naturale” di un tale “popolo” ha queste virtù poiché ne interpreta umori e bisogni a prescindere da qualsiasi riscontro di mandato. Non ne ha d’altra parte un vero bisogno mentre, invece, è certo che egli senz’altro necessiti al popolo, in quanto quest’ultimo è altrimenti perso nelle manipolazioni che le élite operano ai suoi danni. In fondo, il capo protegge mentre il popolo rivendica tutela e attenzioni. Cos’altro chiedere alla politica?

Tutto quanto non si riconosca in un tale costrutto è quindi conflitto, divisione, separazione, dimensioni della caduta della moralità che sarebbe alla base del «declino dell’Occidente». Lo stesso suprematismo, come esaltazione prevaricatoria, a tratti fisica, muscolare, senz’altro razzista, si inscrive dentro questo dispositivo ideologico: si deve trasformare la politica, di per sé altrimenti inesorabilmente corrotta, in un nuovo sistema, dove a dominare sia la forza legittima. Beninteso, non quella delle istituzioni bensì ciò che promana dalla “grande nazione americana” di stampo trumpiano. Anche per queste ragioni Trump si presenta da sempre – e continuerà a farlo comunque nel futuro – come colui che si è incaricato di ricomporre le «divisioni». Semplicemente annullando ogni mediazione e dichiarando come inconciliabile rispetto alla sua morale tutto quanto non coincida con essa, tale poiché dettato dagli abominevoli “interessi di parte”.

«Make America Great Again» non è un programma politico, è una piattaforma di valori dichiarati inconfutabili e, come tali, non contrattabili. Disegnarsi un perimetro dentro il quale corazzarsi («io sono così, voi siete come me ma io sono anche come voi») è la via più semplice, ma anche quella più profittevole, grazie alla quale cercare fidelizzazioni e trasformare il proprio populismo in un fondamentalismo laico. Anche per una tale ragione, l’illiberalismo di Trump è soprattutto avversione per il pluralismo, per la differenziazione che è parte costitutiva di una società a sviluppo avanzato, per la complessità dei processi sociali e la grandissima stratificazione culturale che, invece, sono tratti costitutivi degli Stati Uniti. Non solo non li capisce ma non è in alcun modo interessato a comprenderli. Così facendo, intercetta un grande numero di consensi, espressigli da quelle elettrici e da quegli elettori che percepiscono i mutamenti, le differenziazioni, le trasformazioni come una minaccia diretta alla loro stessa esistenza. Cercando di voltargli le spalle perché non hanno la capacità né la possibilità di guardarli in volto. Trump dice loro che sarà il filtro che li salverà da un altrimenti inesorabile declino.

Più di 70 milioni di voti sono comunque l’incoronazione non per colui che adesso dovrebbe essere a capo dell’opposizione ma per chi pensa che al prossimo passaggio – ovvero non appena se ne crei l’occasione – si possa cercare di andare oltre la stessa dialettica tra maggioranza e minoranza. Trump non solo non gradisce l’essere identificato con una minoranza (condizione che aborre poiché la identifica con il ruolo dei perdenti) ma non riesce neanche a concepire se stesso come collocato in un confronto, ad armi pari e con regole certe, tra parti contrapposte. Semplicemente, al pari di molti suoi elettori, non solo si sente dalla parte del “giusto” ma ritiene che quel giusto riposi in una sola parte, la sua. Nessun altro orizzonte possibile.

Va ripetuto: non è solo una ipertrofia narcisista ma è la cifra di una risposta che è data da non poche persone dinanzi all’orizzonte della globalizzazione. All’interno di questa cornice, molte cose diventano plausibili, tra le quali un connubio tra pragmatismo e opportunismo, isolazionismo in politica estera e interventismo in quella statale, dogmatismo delle parole e massima flessibilità nelle singole scelte, il tutto comunque condizionato da un andamento ondivago, privo di una meta che non sia quella del giorno per giorno. Anche per queste ragioni, quindi, l’altrimenti solido fronte neoconservatore, che aveva vivacemente appoggiato l’Amministrazione Bush, inserendovi motivi tradizionalisti, iperconservatori insieme ad una visione della politica americana come ispirata da un globalismo interventista, da subito ha invece rifiutato Donald Trump. Già nella sua corsa alla nomination del 2015. Per poi proseguire durante il suo mandato. Ma quella truppa repubblicana oggi è non meno smobilitata di tante altre, sconfitta com’è dall’evoluzione dei fatti storici.

È del tutto plausibile preconizzare che il tentativo di Trump di rimanere in carica malgrado il diverso esito delle elezioni, si esaurisca entro il 20 gennaio. Ma anche in questo caso il vero fuoco polemico del presidente uscente non punta tanto a questo assai improbabile obiettivo. Difficile che Trump possa infatti credere che le ripetute, ossessive, maniacali affermazioni sulla sua “vittoria” gli servano effettivamente a ribaltare non solo il risultato ma anche e soprattutto a vanificare le stesse regole del gioco. Lasciamo stare i fantasmi del golpe. Il sistema dei poteri statunitense ha una ramificazione, un’articolazione ed una complessità, a partire dalla durissima dialettica tra Stati federati e sistema federale, tra amministrazioni e giustizia, che di per sé rende assai improbabile qualsiasi colpo di mano. Contro il quale, peraltro, per necessità prima che per virtù, i molti si opporrebbero, rendendo impraticabile un centralismo auto-referenziato. Quello che invece il presidente uscente da tempo sta costruendo, non solo come exit strategy, è una narrazione di sé, ossia della sua “estromissione”, che insuffla e dà corpo alla teoria del complotto: siamo stati scalzati in virtù dell’azione di quei «poteri forti» (la catena tra informazione, odiata intellighenzia liberal, lobbies e addirittura «pedofili», posto che l’immaginario della violazione sessuale del corpo dei bambini è una vivida trasposizione del satanismo) che intendono asservire  i buoni e i giusti.

Una sorta di orwelliano 1984 ribaltato. Una narrazione del tutto congrua con la fabbricazione dell’immagine di un Biden impostore e dei democratici come mentitori di professione, in quanto l’uno e gli altri vertici di un complotto, quello portato avanti dalla «Cabal», di cui QAnon si è incaricato di denunciare la subdola pervasività tra il popolo del web. La sub-cultura paranoide del sospetto è da sempre la risposta regressiva, ma auto-rassicurante, che una parte delle comunità nazionali contrappongono alle spinte prodotte dal mutamento, alla curiosità per la trasformazione, al bisogno stesso di cambiamenti. Quando ci si sente intrappolati dentro un reticolo di relazioni sociali che si fanno sempre più vincolanti e incomprensibili, quindi soggiogati da una condizione dove non pochi si sentono espropriati del proprio orizzonte, impauriti da una realtà che non si fa più interpretare con gli strumenti della prevedibilità, il sospetto diventa un rifugio, un riparo, un’ancora di salvezza, ai quali aggrapparsi per darsi una ragione e confidare in soluzioni, a facile portata di mano, rispetto ai propri problemi. Quanto ciò possa risultare rispondente ad una visione magica ed infantile della realtà, è solo lo sguardo retrospettivo che potrà dirlo a coloro che ne risultassero intrappolati. Storicamente, è sempre stato così.

La menzogna, da questo punto di vista, è dolce poiché rassicurante. Qualsiasi discorso sul fake non può prescindere da una tale premessa, in quanto coincide con il bisogno di sostituire il credere al conoscere, il fidelizzarsi ad un’immagine rispetto al rapporto critico con le rappresentazioni, in un circuito sociale, economico e culturale dove invece la fiducia è stata messa ripetutamente a dura prova dalle crisi che si sono accompagnate in questi ultimi anni, non da ultima quella dei mutui subprime. È la vera forza degli «alternative facts», una realtà virtuale parallela, dove chi crede in essi ha la convinzione di avere sempre e comunque ragione. Poiché questi costituiscono lo specchio del pensiero più radicato e radicale, quello che identifica nella propria visione del mondo l’essenza del mondo stesso.

Donald Trump, d’altro canto, ha costruito la sua raffigurazione personale, ben prima di diventare presidente, giocando proprio sul teatro delle immagini comuni, quello delle rappresentazioni mediatiche, quindi intervenendo attivamente nelle stesse politiche dell’immaginario collettivo. Al quale si rivolge sapendo quali corde toccare e quali toni usare. Il suo vero successo riposa in questa sorprendente abilità. Ben sapendo che sempre più spesso sono i media, e con essi i social network, a stabile quale sia la mutevole linea di divisione tra realtà e finzione, questi ultimi giocando soprattutto sulla definizione dell’agenda delle priorità e, con esse, della natura del discorso pubblico. Già nel 2004 si era affermato con un reality show, un format comunicativo e rappresentativo oramai universale che, in tutte le sue varianti, sostituisce alla realtà la sua raffigurazione mediatica, inducendo nello spettatore l’impressione che la seconda sostituisca o comunque surroghi efficacemente l’esperienza materiale della prima.

«The Apprentice» è durato una decina d’anni. In esso svolgeva già il ruolo di giudice insindacabile, ovvero di “capo naturale”, che salva oppure condanna con la catchphrase«You’re fired!» (“Sei licenziato!”), divenuta uno slogan poi ripreso anche nella campagna elettorale per la presidenza e indirizzato contro l’allora presidente in carica Barack Obama. Così operando, Trump intende continuare a coprire un vuoto, quello della politica repubblicana, che non ha più il fiato per produrre candidati che non siano divisivi. Non almeno per il momento, giocando invece ad una rincorsa, come era già avvenuto nel 2015, tra esponenti dei diversi gruppi, movimenti e coalizioni legati all’identitarismo, quindi ad una dottrina delle relazioni sociali dove la divisività è l’ossatura di un pensiero profondo, non scalfibile, in quanto legato all’idea che non esista una società eterogenea ma solo un arcipelago di gruppi dove deve affermarsi quello che incorpora in sé la forza (fatta passare come “moralità”) più potente. Un pensiero che ritiene che per essere uniti tra i propri omologhi necessiti l’identificare gli altri da sé come un pericolo.

Anche da ciò, allora, il corteggiare con l’invito «stand back, stand by» i gruppi della destabilizzazione eversiva, a partire dai Proud Boys, che guardano da sempre ai poteri federali come ad una congiura ai danni delle comunità territoriali. In questo volersi candidare ad essere il re dell’immaginario della destra non liberale, per capitalizzarne il dominio in vista del prossimo confronto presidenziale, quello del 2024, infine entra in gioco una potente (e pesantissima) partita per i prossimi tempi. Qualcosa che potrebbe divenire un’ipoteca. Non riguarda Biden, già presentato per le stagioni a venire come presidente dimezzato, «anatra zoppa» anzitempo, in quanto al medesimo tempo senile, manipolabile e a capo della congiura che a portato allo scippo elettorale a danno degli elettori di Trump. Il vero target è semmai Kamala Harris.

Già dalle prime mosse polemiche, dove si è giocato a man bassa nel dipingerla come una finta moderata, in realtà esponente di un cripto-radicalismo di sinistra, destinato ben presto a rivelarsi, manifestandosi in maniera esacerbata, si può comprendere il terreno sul quale si verificherà la lunga partita della delegittimazione della nuova Amministrazione. La Harris è donna e non è bianca; soprattutto, rappresenta il fantasma dell’emancipazione femminile (ed in particolare l’autonomia di pensiero e di azione), che angoscia una parte dell’elettorato, non solo necessariamente maschile, essendo la prima vicepresidente di sesso femminile. Non è l’alter ego di Nikki Haley ma delle “femmine castranti” come Elisabeth Warren, Alexandria Ocasio-Cortez, Nancy Pelosi, ovvero della stessa Hillary Clinton. Odiate oltre ogni misura dall’universo conservatore poiché non solo «socialiste» ma in quanto descritte come figure diaboliche, che divorano la potenza mascolina e viriloide. Nel raffigurarla come la strega che, dietro le quinte, manovra un anziano uomo, coartandone la debole volontà, si potrebbe aprire una prateria di possibilità per una figura spregiudicata come Donald Trump, ben sapendo che, se la sua attuale presidenza è già finita, non la stessa cosa può dirsi da subito del movimento di umori e risentimenti che si è invece saldamento coalizzato dietro la sua immagine. Il futuro si incaricherà di riscontrare come le cose si saranno svolte. Per l’intanto, come si diceva in esordio, la partita della transizione, quella dell’interregno, sarà molto più lunga del tempo ad essa occorrente per compiersi. Se gli atti istituzionali finiranno nella seconda metà di gennaio, gli echi rimbalzeranno ben oltre.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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