La storia del protagonista delle incredibili vicende che animarono l’esame di maturità in un liceo veneziano del 1939
Anno 1939, esame di maturità, liceo ginnasio “Marco Polo”, Venezia; accade l’impensabile: un ragazzo si alza in piedi per protestare contro le leggi razziali che discriminano le sue compagne di classe (purtroppo ex compagne di classe) ebree. Erano tre: Giuliana e Lilla Coen (non parenti) e Nelly Basevi. La prima, Giuliana, dopo essersi sposata con Guido Camerino ed esser divenuta una stilista, diventerà famosa come Roberta di Camerino, una delle signore della moda italiana del dopoguerra.
Nata nel 1921, espulsa da scuola dopo le leggi del 1938, l’anno successivo si iscrive come privatista alla maturità classica in quello che era stato il suo liceo. È stata lei stessa a raccontare cosa sia accaduto quel giorno nel suo libro di memorie, R come Roberta, pubblicato nel 1981: «Quella mattina entriamo in classe e assisto alla prima sorpresa. Tutti i banchi sono in fila, come sempre. Ma ce ne sono tre in un canto, un po’ scostati. Io faccio per sedermi a caso, quando mi arriva alle spalle un professore e mi dice: “No, laggiù per favore”, e indica uno dei banchi messi da parte. Quasi nessuno si accorge di quel che sta accadendo perché c’è il solito trambusto, gli amici cercano di stare insieme, c’è chi cambia idea all’ultimo momento, chi baratta il suo con un altro posto. Alla fine siamo tutti seduti. C’è un attimo di silenzio, finalmente. Ed è in quel momento che, da un banco centrale, si alza un ragazzo. Non è bianco, è un mulatto. Alza la mano, per poter parlare. È il figlio di una principessa eritrea e d’un generale italiano. “Volevo sapere perché quei candidati son tenuti da parte”. Ha una voce sonora, un accento romanesco, ma elegante. Il professore ha un momento d’imbarazzo, ma si riprende. “Sono privatisti”. Il mulatto sorride. “Certo: privatisti. Ma perché sono ebrei, non è vero?”. Questa volta l’imbarazzo del professore è più evidente. Il giovane eritreo non gli dà nemmeno il tempo di dire una parola. “Se è per una questione di razza, nemmeno io sono ariano, come certo non vi sarà sfuggito, non è vero? Perciò, con il suo permesso…”. Ma non aspetta il permesso di nessuno. Prende l’ultimo banco della fila, che era vuoto, e lo spinge verso i nostri, di lato. Allora accade l’imprevedibile, davvero. Tutta la classe si alza, alcuni mi fanno alzare, prendono anche il mio banco. In un niente la classe è tornata normale: tutti i banchi tornano in tre file, noi siamo con gli altri. Il giovane mulatto, prima di sedersi a sua volta, fa un rigoroso inchino al professore. C’è un attimo di silenzio. L’insegnante è turbato. Si leva gli occhiali, passa una mano sugli occhi. Poi, quasi parlando a se stesso, ma lo sentiamo benissimo dal posto, si lascia scappare un: “Vorrei abbracciarvi tutti quanti”».
In cerca di informazioni
Al di là del fatto che non è detto che la mamma fosse principessa e il papà generale (ufficiale del genio sì, ma il grado non è accertato), tutto l’episodio sembrava così irreale da essere inverosimile, una vera e propria scena da “L’attimo fuggente” cinquant’anni prima. Quindi chi scrive è andato a intervistare Giuliana Coen/Roberta di Camerino nella casa di Lugano dove viveva (in ricordo del fatto che lei, il marito e il figlio Ugo si erano salvati fuggendo in Svizzera nel 1944) per farsi raccontare l’episodio e, soprattutto, conoscere il nome del protagonista. Era il marzo 2009, la stilista sarebbe morta poco più di un anno dopo, nel maggio 2010. Era tutto reale, accaduto davvero, e il nome del ragazzo? «Spròcani, Vico Sprocani», dice la Camerino, ed è la prima traccia. La seconda la fornisce l’allora preside del liceo ginnasio “Marco Polo”: i registri della maturità dicono che Ludovico Sprocani è nato a «Cheren (colonia eritrea)» – oggi Keren – e che viene promosso a settembre dopo aver ridato l’esame di matematica e fisica.
Di lui non si sapeva altro, se non che nel dopoguerra diventa direttore a Venezia di un giornale dell’Uomo Qualunque, la formazione politica che registrò un grande successo nelle elezioni del 1946. Fine. Consultando il sito paginebianche.it non risulta alcuno Sprocani in Italia, di eventuali parenti veneziani non si sa nulla, anche perché se si chiamassero con uno dei cognomi più diffusi in laguna, tipo Vianello o Scarpa, sarebbero di fatto irrintracciabili tra le migliaia di omonimi (infatti, si saprà poi, si chiamano proprio Scarpa).
La storia di Ludovico Sprocani
Ogni tanto, soprattutto in occasione della Giornata della Memoria, provo a parlare di questo avvenimento e a chiedere se qualcuno sappia nulla di Ludovico “Vico” Sprocani. Passa qualche anno e grazie a un contatto su Facebook emerge un ulteriore indizio: si fa viva una signora di Gallarate. «Viveva, qui», dice, «con la moglie, una bellissima signora veneziana. Dopo la sua morte, la vedova se n’è andata». La traccia di Gallarate, importante, si rivela comunque sterile, non si riesce a sapere nulla di più.
Un paio di mesi fa, però, arriva un nuovo messaggio su Facebook, quello decisivo: «Vico Sprocani era mio prozio, marito di Adalgisa Cendali, sorella di mia nonna». Un incontro con Andrea Faccini e suo padre Giancarlo – veneziani che vivono a Monza – permette così di chiudere il cerchio e raccontare una storia inseguita per quasi dieci anni.
Sprocani durante la guerra è ufficiale di cavalleria e va a combattere in Russia. Con ogni probabilità dopo l’8 settembre 1943 collabora con l’OSS americano, (Office of Strategic Services, istituito nel 1942 perpoi diventare la CIA). Quando torna si laurea in giurisprudenza a Padova, va a fare pratica in uno studio veneziano e conosce quella che diventerà sua moglie. Nel frattempo Vico era rimasto orfano di madre e poco prima di sposarsi perde anche il padre. Dopo il matrimonio – siamo all’inizio degli anni Cinquanta – si trasferisce a Gallarate dove fa l’agente di commercio.
Ludovico e Adalgisa rimangono legati ai parenti veneziani: d’estate vanno in vacanza tutti assieme al Lido, d’inverno a Falcade, dove acquistano una casa. Come spesso accade alle coppie senza figli, si affezionano moltissimo ai nipoti. Andrea Faccini è il primo nato tra i nipoti e ricorda le partite a briscola con lo zio che amava giocare a carte, mentre non gli piaceva affatto perdere.
Era un uomo affabile, generoso, istruito, di portamento quasi aristocratico, amava lo sport e praticava il tennis. Era riservato e parlava poco di sé: oltre a non aver mai detto nulla dell’episodio del “Marco Polo”, l’unica cosa che raccontava della campagna di Russia era il pericolo dei gatti selvatici che attaccavano in branchi, quasi che i gatti selvatici costituissero l’unico rischio per i soldati italiani dell’Armir. Gli piaceva socializzare e i vecchi amici di Gallarate lo ricordano alto, elegante, e sottolineano che la moglie era una donna bellissima. Fumava sigarette svizzere. Odiava le discriminazioni e mantiene per sempre il “vizietto” di intervenire per evitare i soprusi. Giancarlo Faccini racconta di un furibondo litigio con un camionista che gli aveva tagliato la strada in montagna. A un certo punto Vico scende dall’auto, si siede sul cofano, e dice: «Adesso vediamo chi si muove per primo». Se n’è andato il camionista, neanche a dirlo.
Per la monarchia
Sprocani era un convinto monarchico, disprezzava Vittorio Emauele III, mentre apprezzava moltissimo Umberto II e andava tutti gli anni a trovarlo nel luogo dell’esilio, a Cascais. Il suo destino si compie proprio nella cittadina portoghese quando, nel marzo 1983, ci va per assistere ai funerali del “re di maggio”. Un po’ come Joseph von Trotta, il protagonista del romanzo di Joseph Roth La marcia di Radetzsky, non sopravvive al suo imperatore, così la vita di Ludovico Sprocani si spegne assieme a quella di colui che aveva sempre considerato il «suo re». Muore a Cascais e la moglie va in Portogallo per rimpatriare la salma, viene poi sepolto nell’isola di San Michele, il cimitero di Venezia. Poco tempo dopo la vedova lascia Gallarate e si trasferisce a vivere con la sorella a Mestre, dove muore nel 2015.
Sprocani non aveva discendenti diretti e i parenti della moglie oggi vivono tra Monza, Mestre e il Lido di Venezia. Nessuno di loro conosceva la storia della maturità del 1939.
Ora, grazie a Google, si è saputo qualcosa anche di quelli che dovrebbero essere suo nonno e suo padre. Il primo, Ludovico come il nipote, si laurea in medicina a Padova nel 1863, esercita la professione medica a Venezia fino a quando si trasferisce nell’ospedale civico di Pola; fino al 1897 è il primo presidente della Camera dei medici dell’Istria, poi evidentemente rientra a Venezia, dove muore nel 1925. Il figlio Giovanni, nato a Pola, nel 1905 risulta iscritto alla Regia scuola d’applicazione per gli ingegneri di Torino (dall’anno successivo Politecnico). Quindi potrebbe essere andato in Eritrea come ufficiale del genio, lì ha conosciuto la moglie e nel 1921 è nato il Ludovico che si ribella alla discriminazione razziale contro le compagne di scuola ebree. La sua storia dopo dieci anni si può finalmente raccontare per intero.
Giornalista e storico veneziano, scriveva per il settimanale Il diario, è autore di saggi storici e sul cibo (per Il Saggiatore e per Garzanti), argomento che ha intersecato anche nel laboratorio di storia del cibo che ha condotto per due anni all’Università Statale di Milano.
che bella storia,mi ha fatto piacere leggerla,stiamo vivendo un brutto presente e speriamo di non rivivere un passato orrendo,queste storie di coraggio sono edificanti e ci alleviano lo spirito, grazie per la perseveranza che ci ha permesso di conoscere e seguire per intero la vita di questo splendido Uomo
Molto bella questa storia! Grazie per averla ritracciata. È confortante pensare che i giovani coraggiosi rimangano tali anche col passare degli anni
Grazie, conoscevo la vicenda del liceo, ma sono sempre stato incuriosito dal ‘dopo’ nella vita di quest’uomo. Grazie ancora, mi sono stampato questo bellissimo pezzo di storia .
Che meraviglia poter chiudere con tutte le informazioni una storia rimasta sospesa per tanti anni!!!
Congratulazioni per la sua tenacia!
Leggendo mi sono ricordata che Giorgio Perlasca divenne membro del direttivo del “l’Uomo Qualunque”, quindi il “nostro” Vico… non aveva perso l’abitudine.
Bellissima storia!!!