Un viaggio dalla Francia alla Cina, tra i sapori di mezzo mondo
Le generalizzazioni sono sempre insidiose. Anche quando si tratta di cucina. Parlare di spezie come di una caratteristica distintiva della cucina ebraica rischia dunque di essere divisivo nonostante l’apparente neutralità dell’argomento. Pepe, peperoncino, cumino e compagni sono infatti patrimonio di una vastissima quantità di popoli e di culture, che fin dall’antichità hanno imparato come impiegare semi, radici, resine e cortecce delle piante più diverse sia per insaporire i cibi sia per eseguire rituali religiosi, farsi belli o curare malattie.
Eppure non si può negare che il mondo ebraico abbia da sempre avuto una relazione speciale con queste sostanze, provato non soltanto dai ricettari ma anche da ben più ragguardevoli citazioni nei tesi sacri. Secondo la Bibbia, la prima spezia avrebbe fatto la sua comparsa già nel giardino dell’Eden. Si tratta del bdellio, una gommoresina dal colore bruno e il profumo aromatico usata come componente della mirra oltre che come base di impiastri e unguenti curativi. Ricavata da arbusti provenienti dall’Africa e dell’India, secondo quanto riportato da Frederic Rosengarten nel suo Book of Spices compare come profumo nell’antico Egitto, dove le donne lo utilizzavano sotto forma di palline trasparenti.
Tornando alle Scritture, il Cantico dei Cantici presenta un ampio repertorio di citazioni. Tra queste, il riferimento a colui che giunge dal deserto “come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d’incenso e d’ogni spezia dei mercanti”, mentre la Genesi racconta di quando Giuseppe fu venduto dai fratelli per 20 pezzi d’argento ai mercanti di spezie che portavano mirra e incenso. Nell’Esodo le spezie compaiono nel loro uso rituale, con Mosè che tra le altre cose viene istruito sul Sinai anche sulla preparazione dell’olio per aspergere il tabernacolo, con tanto di indicazioni sulle proporzioni precise sulle spezie da mescolare: 500 shekel di mirra, 250 di cannella, 250 di calamo e 500 di cassia. Nel Libro dei Re si legge che “Ezechiele li ascoltò e mostrò loro tutto il suo tesoro, l’argento e l’oro, e gli aromi, e l’olio prezioso”, con riferimento finale alla resina. Sempre secondo gli scritti antichi, carovane di asini e poi, intorno al 1000 a.C., di cammelli trasportavano questi beni dall’Arabia attraverso Petra fino al Levante e poi in Egitto e nel Nord Africa.
Passando ai testi moderni, Claudia Roden sottolinea quanto le spezie siano da sempre patrimonio della cultura gastronomica sefardita, elencando nel suo imprescindibile Book of Jewish Food le diverse categorie di insaporitori utilizzati dalle comunità mediterranee, mediorientali, indiane e orientali. Ecco allora che cumino e coriandolo sono citati come i favoriti presso gli ebrei egiziani, pimento e cannella sono più amati dai turchi, mentre il cardamomo è immancabile tra gli indiani e gli iracheni.
Prima però che si affermassero come elemento caratteristico delle cucine locali, le spezie erano state anche decisive per l’affermazione economica di particolari gruppi sociali. Come si vede dalle citazioni riportate, è difficile dissociare le spezie da coloro che le vendevano. E, soprattutto, che le importavano. Prevalentemente provenienti dall’Oriente, queste preziose sostanze erano state tra i prodotti alla base dei commerci dei mercanti ebrei fin dall’epoca babilonese, quando i legami tra Babilonia e Persia si estendevano fino all’India, dalla quale i mercanti tornavano tra l’altro con carichi di zenzero. Fino all’VIII secolo, tali traffici erano stati appannaggio di ebrei e siriani, che si spingevano fino alla Cina, poi, con la conquista della Siria da parte degli Arabi, le spezie sarebbero rimaste una questione soprattutto ebraica.
Il momento decisivo perché questi mercanti diventassero i protagonisti di tale giro di affari coincise con la caduta di Roma. Tra il IX e il X secolo, con un’Europa non più unita sotto un unico Impero, la scissione tra mondo cristiano e mondo arabo avrebbe anche reso notevolmente meno agevoli i collegamenti tra est e ovest, con le navi che ben difficilmente potevano salpare da un porto cristiano dirette a uno musulmano. In un commercio bloccato nei rispettivi domini, c’era solo una categoria di mercanti che potevano passare agevolmente dall’una all’altra parte. Si trattava dei Radaniti.
Su chi fossero in realtà questi mercanti e da dove venissero gli storici non hanno ancora raggiunto un accordo, così come sull’origine del loro nome, che potrebbe derivare dall’espressione persiana che indica chi conosce la via, ossia, semplicemente, i viandanti. Alcuni storici ritengono che provenissero dall’Europa occidentale, presso l’estuario del Reno, altri dicono che la loro origine fosse l’antica regione di Radhan, nell’odierno Iraq meridionale.
In ogni caso, su di loro sono state fatte numerose congetture, più basate sull’analisi delle popolazioni del tempo e sulle loro pratiche culturali ed economiche che sui documenti giunti fino a noi. Nel 973 d.C. il mercante moresco Ibrahim ibn Yaacub in visita a Magonza, centro ashkenazita sul Reno, notò la presenza al mercato di chiodi di garofano, zenzero e pepe nero e venne a sapere che tali spezie erano fornite da mercanti ebrei, i Radaniti appunto, che mantenevano i commerci tra il mondo cristiano e quello islamico.
La prima testimonianza relativa a questi personaggi per certi versi ancora misteriosi è però uno scritto risalente alla metà del IX secolo di Ibn Khordadbeh. Geografo, questi lavorava per il califfo di Bagdad e nel suo testo fa riferimento per la prima volta a mercanti che “parlano arabo, persiano, romano, la lingua dei Franchi, andaluso e slavo. Viaggiano da ovest a est, da est a ovest, parte per terra, parte per mare. Trasportano da ovest eunuchi, schiavi maschi e femmine, seta, ricino, martora e altre pellicce e spade. Prendono la nave nella terra dei Franchi, sul mare occidentale, e fanno rotta verso Farama. Là caricano le loro merci sul dorso dei cammelli e vanno via terra per Kolzum in cinque giorni di viaggio, su una distanza di venticinque parasanghe. Si imbarcano nel Mare Orientale e salpano da Kolzum verso el-Jar e Jeddah: poi vanno in Sind, India e Cina. Al ritorno riportano muschio, aloe, canfora, cannella e altri prodotti dei paesi orientali a Kolzum e li portano a Farama, dove si imbarcano di nuovo nel Mare occidentale”.
Su questo e pochi altri passaggi, che occupano a malapena due paragrafi, hanno dovuto basarsi tutti gli studi successivi, primo tra tutti quello che ancora oggi rappresenta la ricerca forse più autorevole e citata, ad opera del rabbino Louis Rabinowitz di Johannesburg. Lo studioso nel 1945 scrisse sull’argomento un saggio di una trentina di pagine, The Routes of the Radanites, seguito nel 1948 da un libro, Jewish Merchant Adventurers: A Study of the Radanites, dove fornì un’analisi accurata del documento di Ibn Khordadbeh e lo collocò nel suo contesto storico e socioeconomico.
Tra gli altri che si occuparono di questo affascinante gruppo sociale troviamo lo storico austro-israeliano Eliyahu Ashtor, secondo il quale questi mercanti avevano il vantaggio di poter viaggiare facilmente avanti e indietro tra i due imperi perché ufficialmente non appartenevano a nessuno dei due, dimostrandosi così dei perfetti mediatori. Gli fa eco il collega Elinoar Bareket, che sottolinea come in quel periodo i Radaniti non erano solo commercianti neutrali ma anche messaggeri che portavano molte entrate in molti stati, e che quindi avevano privilegi dalla dinastia carolingia francese oltre che dai governanti musulmani. Secondo Gil Marks, accanto alla comune lingua ebraica, i Radaniti potevano contare anche su una legge e su una religione comune che dava loro maggiore accesso alla cooperazione e al credito.
Lasciando qui da parte la ben poco onorevole attività parallela svolta da questi mercanti, che come si legge nel testo di Khordadbeh si occupavano anche della tratta degli schiavi, la questione relativa alle spezie è materia più che sufficiente a far discutere gli studiosi. Sempre secondo Marks, le spezie asiatiche facevano parte della cucina europea ed ebraica della classe superiore del periodo altomedievale proprio grazie al commercio radanita. Al tempo stesso, fu probabilmente anche la ricchezza generata da questi mercanti a innescare la fioritura delle nascenti comunità ashkenazite lungo il fiume Reno verso la fine del X secolo.
Dall’analisi di Rabinowitz risulta poi che le spezie avrebbero avuto dalla loro più di un vantaggio, che giustificava le innegabili difficoltà di viaggi comunque non privi di pericoli. Fondamentalmente si trattava della facilità di trasporto di prodotti leggeri e ben conservabili, la loro vasta distribuzione, con un mercato sempre più ampio e diffuso, e l’immensa possibilità di guadagno.
Questo monopolio sarebbe durato per circa un secolo, fino cioè all’anno Mille. Dopo, la caduta della dinastia Tang avrebbe portato all’interruzione del traffico lungo la Via della Seta e con questo alla scomparsa dei Radaniti insieme alle spezie asiatiche, che uscirono dalla scena europea più o meno fino all’epoca della prima crociata e all’ascesa degli stati mercantili italiani, in particolare di Venezia, nel X e XI secolo.
Nello stesso periodo, nel mondo arabo si sarebbe continuato a fare un grande uso di spezie trasportate attraverso il Mar Arabico. Ci sarebbe voluto Marco Polo, con i suoi resoconti sulle spezie asiatiche e la comparsa dei primi libri di cucina europei dopo quelli di epoca romana, perché in Europa i più ricchi tornassero a interessarsi alle spezie. Mentre il popolo doveva accontentarsi dei semi delle erbe aromatiche coltivate localmente, in primis papavero e senape, nobili e borghesia emergente ricominciarono ad ambire alle polveri profumate provenienti dall’Oriente.
Messi da parte i Radaniti, si presentò l’occasione per altri gruppi di mercanti ebrei di farsi strada in questo fiorente commercio. Se è vero che le spedizioni di Vasco da Gama e compagni erano spinte tra l’altro dal desiderio di rompere il monopolio veneziano sul traffico delle spezie, è anche vero che in questo periodo, che coincise con l’espulsione degli ebrei dalla Spagna e dal Portogallo, furono diversi i Conversos a presidiare o a finanziare i viaggi verso le isole delle spezie. All’inizio del Cinquecento questo fiorente commercio si spostò così da Venezia a Lisbona, per essere poi soppiantato nel corso dello stesso secolo dagli olandesi, più abili sia in campo nautico sia in quello commerciale. Ma anche qui, ricorda l’autore dell’Encyclopedia of Jewish Food, non sarebbe mancata la firma ebraica, visto che la maggior parte degli importatori di spezie olandesi continuarono a essere sefarditi.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.