In un libro la storia di una delle prime donne produttrici del cinema italiano. Una scorribanda nel Novecento, tra ricordi personali, storie di famiglia e quelle del Paese
È da poco uscita per All Around Edizioni la voluminosa opera (ottocento pagine) Eppure qualcosa ho visto sotto il sole, scritta da Marina Piperno insieme al compagno Luigi Monardo Faccini. Marina Piperno, classe 1935, è stata una delle prime donne produttrici cinematografiche italiane (ce n’erano anche al tempo del cinema muto in realtà ma non esiste ancora una congrua letteratura che ne parli e ce le racconti). Il suo è un libro di parole e di immagini, nato dallo svuotamento degli gli archivi di famiglia e dal frugare tra i ricordi personali ma anche nella storia italiana del Novecento. È difficile definire questa raccolta composta insieme a Faccini, critico cinematografico e regista: una specie di traversata di un’epoca, un epistolario amoroso, un intreccio di passioni varie che spaziano dal cinema, alla letteratura, al sociale, all’incontro con gli altri (“io sono una che dopo che è andata in taxi sa tutto del tassista, ci faccio amicizia”).
Dal primo documentario 16 ottobre 1943 – la data del rastrellamento nazi-fascista al ghetto di Roma – dove ha affrontato le perdite dei suoi cari (lei si è salvata grazie ad Alberto Ragionieri, un signore che la ospitò, poi dichiarato Giusto dallo Yad Vashèm), dopo la permanenza di studio e formazione a New York, Marina Piperno non si è più fermata.
Parafrasando il versetto del Qohelet a cui si ispira il titolo e che riporta la famosa frase: “non c’è niente di nuovo sotto il sole”, qui l’autrice – con piglio ironico ma consapevole delle sue origini ebraiche – sembra dirci che invece ci sono molte cose da scoprire nel mondo e nel corso dell’esistenza, soprattutto se la si vive con l’entusiasmo dell’avventura e la serietà di una missione. Perché i temi scelti da Piperno e Faccini per le loro produzioni affrontano sempre argomenti impegnativi, sollevano domande e riflessioni, nell’ottica che i film possano cambiare il mondo e la prospettiva delle persone; parlano del colonialismo, del femminismo, dello sfruttamento del lavoro, del fascismo visto come alienazione, della follia, come nel bel ritratto del poeta Dino Campana. L’obbiettivo è sempre l’inclusione, lo sguardo sugli ultimi: un viaggio illuminato dai sogni, dal desiderio di pace e giustizia sociale. Un racconto di vittorie e sconfitte, com’è la vita, dove all’«ottimismo della volontà», dice l’autrice, si alterna «il pessimismo della ragione». Il coraggio della produzione indipendente è l’idea base del cinema di Marina Piperno. Non è stata solo «quella che trovava i soldi». Li trovava per ragioni precise, coerenti, per raccontare cose di nessuno osava parlare. Ha cercato di scegliere i soggetti «stando dalla parte giusta».
Nascono pellicole non solo tradizionali ma sperimentali, oltre il documentario. Per quattro volte ci recita anche. Sostiene le sceneggiature di Cesare Zavattini (ne La Verità fece dire a un personaggio: «La sinistra non ha il coraggio della propria grandezza»), va a scavare insieme a Faccini nella memoria, anche se è scabrosa, premiando i gesti di resistenza come ne L’uomo che nacque morendo dove viene narrata la storia di Rudolf Jacobs, un tedesco che disertò per aiutare i partigiani e morì per la libertà. Quando le viene chiesto di riassumere la sua carriera usa questa espressione: «Sogno e immaginazione che diventano realtà verosimile, accattivante, sconfortante come nella vita». Una vita che è stata pienamente vissuta e che qui viene generosamente raccontata. Sì, sotto il sole – se si dà un senso al nostro percorso terreno – ci può davvero essere qualcosa di importante.
Grazie Laura. Da donna e da scrittrice
Ha capito tutto molto bene.
Marina piperno
Mi è piaciuto come è stata descrita questa bravissima regista . Ho avuto occasione di vedere il film “ Diaspora” ed è veramente impressionante. Sembra di entrare nei vari episodi e seguire insieme i vari episodi che susseguono la narrazione . Attraverso le scene e fotografie molto curate , si ha la sensazione di essere in uno spazio e tempo della narrazione ma anche oltre. Difficile e coraggiosa la scelta di affrontare i vari percorsi famigliari post Shoah e capire le loro sorti . Trovo molto educativo ed audace . Bella la critica!