Passati dalle 16.400 anime del 1951 alle forse duecento di oggi, gli ebrei della Città Rossa vivono ormai quasi tutti nei quartieri nuovi, lontani dalla medina, nel quartiere di Galiz
Non ci abitano quasi più ebrei, nel quartiere ebraico di Marrakech. Questo, però, non significa che il mellah sia una città fantasma. Anzi. Nella zona dove dalla fine del Cinquecento si è concentrata la comunità ebraica, la presenza dei suoi storici abitanti è ancora tangibile. E non solo perché qui è ancora attiva la più antica delle sinagoghe cittadine, né perché, a pochi passi dalle vecchie dimore, si accede al più grande cimitero ebraico del Marocco.
Passati dalle 16.400 anime del 1951 alle forse duecento di oggi, gli ebrei della Città Rossa vivono ormai quasi tutti nei quartieri nuovi, lontani dalla medina, nel quartiere di Galiz. Ma anche se qui si trova anche la più moderna Sinagoga Beth El, in place Zerktouni, appena è possibile la comunità torna negli antichi luoghi. Rinnovando così i riti di un popolo presente in città fin dalla sua nascita, nel 1062.
Pare che il fondatore di Marrakech, il re berbero Yusuf ibn Tashfin, capostipite della dinastia degli Almoravidi, non avesse posto particolari limitazioni alla convivenza con gli ebrei (presenti in Marocco, si pensa, fin dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme) e che li accettasse nel loro status di dhimmi, ossia di sudditi non musulmani in uno stato governato dalla legge islamica. La sua relativa tolleranza religiosa, che pare non avesse portato a persecuzioni e che anzi favorì un periodo di serena convivenza tra le religioni del Maghreb, non sarebbe però stata condivisa dal figlio, Ali ibn Ysuf.
Salito al trono nel 1106, il nuovo re proibì agli ebrei di vivere a Marrakech e in particolare di passarvi la notte. Commercianti e artigiani potevano insomma venire a lavorare in città di giorno, ma dopo il tramonto dovevano tornarsene a dormire nei villaggi del circondario. Non sarebbero mancate comunque le eccezioni, con rappresentanti ebraici dell’arte e della scienza ammessi a corte addirittura con la carica di visir.
Nessun dubbio, invece, ci sarebbe sul trattamento riservato alla popolazione israelita sotto il dominio degli Almohadi. Sostenitori di un Islam intollerante ed estremista, furono artefici di esecuzioni e conversioni forzate in tutto il regno, con la distruzione di sinagoghe o la loro conversione in moschee. Anche questo periodo era destinato però a finire e con i Merindi le cose cominciarono ad andare meglio. Secondo alcuni, la convivenza più pacifica con la nuova stirpe era dovuta a una sua presunta origine ebraica, per altri, più realisticamente, a giocare un ruolo chiave sarebbe stata la politica.
Bisognosa di consensi, la dinastia berbera che per due secoli dominò sul Maghreb e su parte della Spagna islamica puntava su un sistema di governo capillare e diversificato e aveva chiamato così in suo soccorso i rappresentanti delle più diverse realtà locali, ebrei compresi. La presa di Marrakech del 1269 segnò il pieno dominio della nuova dinastia e la fortuna delle comunità locali, che poterono coltivare arti e scienze sotto la protezione dei nuovi sovrani, anche grazie ai contatti con i sefarditi che in piena Reconquista spagnola stavano via via abbandonando la Penisola Iberica.
La grande esplosione della comunità della capitale marocchina del sud sarebbe avvenuta però nel Cinquecento. Fino a quel momento, gli ebrei berberi provenienti dall’Atlante erano stati la maggioranza, ma dalla fine del XV secolo, con l’arrivo in massa degli spagnoli e dei portoghesi, gli equilibri si sarebbero ribaltati nettamente. Nei primi decenni del Cinquecento i profughi e i convertiti a forza fuggiti in Marocco per riabbracciare la fede dei padri sarebbero diventati la maggioranza, portando la comunità a toccare complessivamente le 25mila anime.
Dislocate inizialmente in diversi quartieri, tutte queste persone tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento sarebbero state costrette dal sultano Abd Allah al-Ghalib a rinchiudersi tra le mura del mellah, il più grande del Marocco. Adiacente al palazzo del sovrano, questo quartiere destinato ai non musulmani non avrebbe avuto intenzioni restrittive quanto precauzionali, se è vero che la sua posizione accanto ai palazzi del potere aveva lo scopo di proteggerne gli abitanti, posti sotto la tutela del re.
In ogni caso, quello che ancora oggi si vede in questa parte della medina adiacente alla kasbah (l’antico quartiere reale), è comunque un luogo chiuso, con una porta che lo separa dal resto della città e un’altra che si apre sul cimitero. Punteggiato da fondachi, sinagoghe e mercati, il mellah era il luogo privilegiato per gli affari e, in qualche modo, lo è ancora. Nelle sue strette vie, su cui affacciano edifici più alti della media della città vecchia, con finestre sulla strada altrimenti impensabili nell’architettura musulmana, si può ancora andare a caccia di profumi, pietre e oggetti di artigianato. La piazza da cui vi si accede, in particolare, è un luogo alle cui tentazioni è difficile sfuggire. Per quanto alcuni la ritengano ormai troppo turistica, Place des Ferblantiers (letteralmente, la piazza dei lattonieri) offre una generosa selezione di oggetti lavorati in stagno e vetro, in particolare lanterne e lampade, oltre a un buon numero di luoghi dove rifocillarsi o comparare le immancabili spezie.
Varcata la porta verde intitolata al rabbino Mordechai Ben Attar, comunque, quella malia di cui si diceva all’inizio seduce anche il più distratto dei visitatori. Per quanto le case qui non siano più occupate dagli antichi abitanti, un’attenta ristrutturazione del governo marocchino terminata nel 2017 ha riportato non solo facciate e portali alle antiche memorie, ma soprattutto ha restituito alle vie i loro nomi ebraici originali.
Tappa immancabile del girovagare in questa città nella città è la sinagoga Salat el Azama, letteralmente la sinagoga dei dissidenti o degli esuli, in rue Talmud Torah. Costruita dai sefarditi in fuga dalla Spagna e il Portogallo negli stessi anni in cui fu costruito il mellah (quindi tra il 1578 e il 1622, gli storici non sono concordi) pare fosse la risposta agli ebrei locali che non si riconoscevano nei riti dei nuovi arrivati. Collocata nel cuore del mellah, è considerata una delle più belle del Marocco oltre che una delle più antiche, nonostante gli interventi dei secoli successivi, che non l’hanno comunque privata del suo fascino magico. Integrata in un gruppo di edifici costruiti intorno a un ampio cortile centrale, nella classica struttura del riad, offre fin dall’ingresso la prova che l’incontro tra culture e tradizioni può creare meraviglie.
Lastricato con le tipiche piastrelline marocchine bianche e azzurre, il patio di ingresso accoglie il visitatore tra gli alberi di arancio, in un silenzio irreale interrotto solo dallo zampillio della fontanella centrale. Il porticato, protetto dal sole da tendaggi a strisce negli stessi colori delle mattonelle, dà accesso sul lato destro al luogo di preghiera, collocato al piano superiore. Sull’altro lato, invece, una serie di stanze ospita un’esposizione che esplora duemila anni di storia ebraica in Marocco. Attiva tutte le mattine per la preghiera, la Salat el Azama ha avuto per anni una custode musulmana ed è aperta anche alle visite turistiche.
Delle 35 sinagoghe ormai scomparse che un tempo punteggiavano il mellah, questa non è però l’unica che si può ancora visitare o almeno riconoscere. Qualche via più in là si incontra ad esempio la Sinagoga Al Fassayn. Costruita nel 1840, è stata chiusa nel 2000 e riaperta per la preghiera ad Hanukkah nel 2016. È possibile organizzare una visita contattando la comunità.
Si può invece solo guardare dall’esterno l’ormai inattiva Salat Yosef Bitton, posta in un palazzo d’angolo tra route Dar Daou e Ksibat Nhass, a un passo dalle rovine dell’antico palazzo reale el Badi. La Sinagoga prende il nome dall’uomo che tra il 1930 e il 1934 riuscì ad acquistare dalle autorità religiose cittadine dei locali che poi adibì a luogo di preghiera. Dalla morte del fondatore, avvenuta nel 1941, è stata gestita dagli eredi rigorosamente con fondi della famiglia, pare su precisa indicazione di Yosef, che non voleva chiedere soldi ai fedeli che vi venivano a pregare. Rinnovata tra il 1999 e il 2001, è oggi chiusa al culto, ma pare che fosse un luogo spettacolare, con ornamenti dorati sul soffitto e le pareti.
Passando all’altra delle testimonianze più forti del passato e presente ebraico della Città Rossa, la visita al cimitero di Miaara, in avenue Taoulat El Miara, rappresenta davvero un’esperienza emozionante. Risalente al XVI secolo, con le sue oltre 10mila tombe è il più grande cimitero ebraico del Marocco. Diviso in tre sezioni, una per gli uomini, una per le donne e una per i bambini, ospita anche le tombe di importanti rabbini che hanno segnato la storia del giudaismo marocchino.
Anche se non mancano i veri e propri mausolei, la maggior parte delle sepolture è indicata da semplici pietre dalla forma triangolare imbiancate a calce. Per poter passeggiare tra le lapidi è richiesto un contributo simbolico al loro mantenimento. Sorvegliato 24 ore su 24, questo luogo incantevole è stato ristrutturato dallo Stato nel 2017 insieme al resto del mellah. Per la sua cura continua vanno ringraziati però soprattutto la comunità e i cento volontari che negli ultimi anni hanno donato tremila ore del loro tempo. Gli amorevoli restauri hanno restituito alle lapidi il loro candore accecante nonché l’accessibilità attraverso i sentieri finalmente liberi dalle erbacce. Oltre a questo, è stato iniziato un colossale censimento delle salme, che possono essere identificate anche grazie a un sito dedicato.
Per concludere l’immersione in un passato più che mai presente, sono almeno altri quattro gli indirizzi che valgono una visita. Il primo è il Dar el Bacha, ossia il Musée des Confluences. Ospitato in un sontuoso palazzo di inizio Novecento, un tempo residenza del “pascià” Thami el Glaoui, è la classica oasi di pace tanto desiderata dai turisti della medina. Vi sono conservati ed esposti numerosi pezzi d’arte provenienti un po’ da tutto il mondo, con una particolare attenzione agli oggetti legati al culto delle tre religioni monoteiste.
Meno spettacolare, ma forse proprio per questo più curioso, è il Musée Tiskiwin, in rue de la Bahia, sempre nella medina. Ben nascosto nel riad di proprietà dell’antropologo e collezionista olandese Bert Flint, raccoglie una marea di oggetti in legno, tappeti, gioielli e pietre preziose che riproducono idealmente un viaggio da Marrakech a Timbuctu. Offre un affascinante percorso a tappe alla scoperta delle radici africane della città e del Marocco, nonché delle rotte percorse da mercanti, artigiani e gioiellieri ebrei attivi nella Città Rossa fin dalla sua fondazione.
Per finire, due musei legati sia dal loro comune ideatore, il gallerista parigino Patrick Manac’h, sia dalla loro filosofia. La Maison de la Photographie in rue Bin Lafnadek 46, e il Musée Mouassine, vicino all’omonima moschea, offrono un punto di vista alternativo del passato di Marrakech e del Marocco, mostrando attraverso le immagini e i suoni la vita dei popoli che ne hanno fatto la storia. Entrambi accolti in edifici di aristocratica bellezza, comprendono nel primo caso una vasta collezione di fotografie d’epoca, tra cui moltissime dedicate proprio agli antichi abitanti del mellah. Il secondo museo, invece, accompagna i suoi ospiti in un viaggio nella storia della musica marocchina attraverso gli strumenti, i suoni tradizionali e le vicende dei suoi rappresentanti andalusi, ebraici, berberi e africani.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.