Un’analisi del pensiero del filosofo viennese a cento anni dalla pubblicazione del fondamentale “Ich und Du”
Cent’anni fa esatti, nel 1923, il filosofo e sociologo ebreo Martin Buber dava alle stampe, presso l’editore Insel di Lipsia, il suo intensissimo capolavoro filosofico intitolato Ich und Du, Io e tu. L’opera inaugurava di fatto un filone nuovo nel panorama della cultura novecentesca, quella “filosofia dialogica” che affermava la centralità dell’altro – chiamato il “tu” – nella costruzione della soggettività individuale, a cavallo tra esistenzialismo e comunitarismo.
Buber divenne così un must anche per molti filosofi non ebrei, in Italia dall’entourage di Marco Maria Olivetti a Roma al gruppo legato a Luigi Pareyson a Torino, con il paradosso di essere letto e apprezzato più nel mondo cristiano che nel mondo ebraico. Lui, che era stato un sionista della primissima ora; che aveva sdoganato il chassidismo all’inizio del XX secolo con due biografie su Nachman di Breslav e il Ba‘al Shem Tov; che aveva fatto ‘aliyà in terra di Israele nel 1938; che aveva ritradotto la Torà (con Franz Rosenzweig) in tedesco, sforzandosi di preservare le peculiarità anche grammaticali e sonore dell’ebraico. Il saggio Io e tu è scritto in forma semi-aforistica, “in uno stile in voga per la prosa filosofica al tempo di Buber, a cui erano particolarmente sensibili gli scrittori che, come Buber stesso, avevano subìto profondamente l’influenza di Nietzsche” (così scrive Andrea Poma, che nel 1993 ripresentò in italiano quel saggio per i tipi della San Paolo, già apparso nel 1958 edito non a caso dalle Edizioni di comunità fondate dall’imprenditore-umanista Adriano Olivetti). Oggi molte delle sue intuizioni e persino delle sue parole-chiave ci sono divenute familiari grazie alle opere di Levinas, di Derrida, di Etzioni, di Ricoeur… ma cent’anni fa erano concettualmente nuove e innovative; il primato dell’etica sulla metafisica e dell’alterità sull’identità suonava quasi rivoluzionario. Aveva gettato le basi per la resistenza e l’alternativa alle prassi sociali e politiche dei totalitarismi del suo secolo!
“La relazione è reciprocità. Il mio tu opera su di me, come io opero su di lui. I nostri allievi ci formano, le nostre opere ci costruiscono. Il ‘malvagio’ diventa rivelatore, se toccato dalla santa parola fondamentale” scrive Buber nella prima parte di quel testo, dove esplora la diversità e la contrapposizione dei rapporti “io-tu” e “io-esso”; nella seconda parte, quelle parole fondamentali sono applicate alla dimensione sociale e politica; nella terza, invece, il tu diviene il Tu con la maiuscola, a indicare che l’essere umano è un vivente-trascendente aperto al dialogo con Dio e la sua umanità si invera nella dimensione estatica, mistica, religiosa (da giovane il filosofo, nato a Vienna nel 1878, si era immerso in uno studio comparato delle mistiche, anche orientali, testimoniato dal volume antologico Confessioni estatiche, edito da Adelphi). Chi volesse leggere una sintesi ragionata e contestualizzata di Ich und Du e del pensiero buberiano trova oggi un ottimo volumetto, scritto dal filosofo Angelo Tumminelli, intitolato Martin Buber. In principio la relazione, pubblicato dall’editore Pazzini (pp.132, 12 euro). Tumminelli rivisita l’intero percorso formativo di Buber mostrando come il filosofo sia giunto alla maturità con quest’opera sull’autenticità delle relazioni umane, che sono tali solo quando l’io riconosce di costituirsi attraverso un tu ossia l’alterità che ha davanti; solo quando l’identità da autorefenziale diventa dialogica; solo quando la comunicazione si fa apertura, ascolto, riconoscimento reciproco. L’essere umano è un ‘animale sociale’, si dice ed è vero; ma per Buber il sociale è autentico solo in quanto è forma dell’interumano, categoria – spiega Tumminelli – “che designa una dimensione speciale dell’esistenza nella quale gli esseri umani si trovano l’uno-di-fronte-all’altro come persone viventi e reciproche”. La socialità intesa come mera moltitudine di esseri casualmente posti nello stesso luogo e nello stesso tempo non può ancora dirsi comunità, almeno fino a quando quegli esseri non entrano in una relazione dialogica ossia interumana; non basta essere gli uni accanto agli altri, occorre che che gli uni guardino negli occhi gli altri; dagli “occhi” buberiani al “volto” levinasiano il salto è breve.
Il volume di Tumminelli rivisita anche lo specifico contributo buberiano alla divulgazione della spiritualità e dell’aneddotica chassidiche: esse, in un certo senso, fanno da sfondo alle più impegnative e astratte formulazioni antropologiche ed etico-politiche di Io e Tu. Seppur criticato, da Gershom Scholem ad esempio, per il suo approccio destoricizzante e quasi edulcorato al movimento ispirato al Ba‘al Shem Tov (a cui era stato esposto sin da ragazzo quando viveva con il nonno paterno, grande studioso di midrash), Buber raccolse nei suoi Racconti dei chassidim un’antologia eccezionale degli insegnamenti del chassidismo, filtrata è vero dalla sua personale sensibilità umanistica, ma che nondimeno resta un classico, anche letterario (in tedesco certo), del pensiero religioso contemporaneo.
Per rimarcare quanto importante fu Martin Buber nella vita ebraica italiana, almeno nella prima metà del Novecento, vale la pena ricordare che il 1923 fu anche l’anno in cui il rabbino Dante Lattes e Mosè Beilinson tradussero i suoi Sette discorsi sull’ebraismo stampati dalla benemerita casa editrice Israel di Firenze. Si trattava di lunghe conferenze tenute da Buber, un decennio prima, al circolo Bar Kochbà di Praga: tali discorsi galvanizzarono un’intera generazione di giovani ebrei che presto avrebbero fatto ‘aliyà e portato un’ondata di nuova progettualità e di afflato etico nella costruzione del nascente stato di Israele, a cominciare dall’università ebraica di Gerusalemme (che sarebbe stata fondata nel 1925 e dove anche Buber avrebbe insegnato negli anni Cinquanta). Ma proprio in terra di Israele e nel giovane stato ebraico Buber restò un’icona, una fonte di ispirazione e un simbolo di idealità, più che un fattore aggregante di consenso e cambiamento. Sperimentò sulla sua pelle che il dialogo con l’alterità e con la diversità non solo genera reciprocità e riconoscimento (come da lui teorizzato) ma li presuppone, anche, e se mancano sin dall’inizio, neppure il dialogo può iniziare. Insomma, la filosofia buberiana si scontrò con la storia e la poesia dell’ideale dovette compromettersi con la prosa del reale. Tuttavia, a distanza di cent’anni, Ich und Du resta un momento altissimo offerto dall’ebraismo diasporico alla cultura occidentale, un contributo che, a tempo debito, non mancherà di dare frutti anche in Medioriente.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
Bellissimo breve saggio. Bisognerebbe che io frequentassi su questo tema un corso di almeno 20 ore di lezione. Massimo, fai tu o esiste un corso su questo?
Grazie Fiorella