L’11 giugno il Tribunale di Milano ha ricordato i 106 avvocati e magistrati della città che, in quanto ebrei, furono privati dei loro diritti
Ci sono due prospettive sbagliate nel modo in cui convenzionalmente studiamo la Shoah. La prima, tipicamente italiana, è credere – e insegnare – che abbia fatto tutto la Germania. La seconda, più universale, è insistere sull’incomprensibilità dell’accaduto. Shoah, sterminio: l’indicibile, l’inspiegabile, l’incommensurabile. Mai più. Se è vero che un accadimento come la Shoah mantiene sempre una dimensione difficilmente o per nulla accessibile alla comprensione umana, è anche vero che decomponendo il mosaico, osservando le tessere di nomi, date, fatti, sbrogliando con pazienza il gomitolo della Storia, questa dimensione di inspiegabilità si contrae significativamente.
Come abbiamo potuto farlo, come possiamo non rifarlo: questo il focus dell’incontro “Le leggi razziali e l’esclusione dalla professione legale degli avvocati ebrei”, tenutosi nel pomeriggio di martedì 11 giugno in un’affollata Aula Magna del Tribunale di Milano. Diverse personalità sono intervenute: Marina Tavassi, Presidente della Corte d’Appello; Roberto Bichi, Presidente del Tribunale; Vinicio Nardo, Presidente dell’Ordine degli Avvocati; Giovanni Canzio, già Presidente della Suprema Corte di Cassazione; Remo Danovi, già Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano; Giorgio Sacerdoti, Presidente dell’Associazione Italiana Avvocati e Giuristi Ebrei; e infine la Senatrice Liliana Segre.
Era il 29 giugno 1939 quando entrò in vigore la legge 1054 sulla “Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica”. La cancellazione di avvocati, magistrati e notai ebrei dagli albi professionali prese il nome di “aggiornamento anagrafico”. Alcuni poterono, per “meriti speciali” (ad esempio onorificenze per la Grande Guerra) “beneficiare” dell’iscrizione nell’elenco separato dei “discriminati” e continuare a esercitare, ma in forma assai limitata.
“Discriminazione”, una parola che, come “razzismo”, diventa lecita, legale, normale. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Per Vinicio Nardo, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, la connivenza, o indifferenza, della magistratura italiana fu una colpa grave: “La discriminazione è il peggiore dei crimini che un avvocato può commettere”, ha affermato durante il suo intervento.
Tra le figure ricordate in modo particolare, Mario Finzi, ragazzo prodigio, musicista e giurista, laureato con lode (e premio del re) a soli 20 anni e divenuto magistrato a 24, arrestato nel ’43 e deportato prima a Fossoli, poi ad Auschwitz, dove morì nell’inverno del ’45. Gli esclusi a Milano dalla professione forense furono almeno 106 – tra cui quattro donne: Irma Foà, Wanda Levi Olivetti, Paola Pellizzi Pontecorvo e Pia Ravenna Levi. In loro memoria, alla fine dell’incontro, è stata scoperta una targa nell’atrio centrale al primo piano del Palazzo di Giustizia.
Due gli approfondimenti particolarmente rilevanti degli interventi: i percorsi della violenza, ieri e oggi, e l’influenza delle leggi razziali sulla giurisprudenza italiana.
Giovanni Canzio, già Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, ha sottolineato come ogni nuovo provvedimento razzista del periodo non arrivasse dal nulla, bensì fosse la continuazione di una campagna d’odio che per lunghi mesi preparò – e in buona parte convinse – il popolo italiano della giustezza di quanto stava accadendo. Gli fa eco Liliana Segre nel suo intervento di chiusura, spiegando che, in quanto testimone diretta dell’odio, quella di un disegno di legge contro l’hate speech è stata la sua prima proposta dopo la nomina a senatrice. Ciò che è dicibile prima o poi diventa fattibile. “Io ho visto il male, è come un serpente che striscia e comincia col prendere in giro la sua vittima”, dice, “proprio come fanno i serpenti che avvolgono la vittima prima di stritolarla. La vittima non sa bene cosa fare, non sa se stare al gioco, se fare finta di niente, pensa che forse il serpente se ne andrà”.
Violenza che comincia dalle parole, e dalle parole del diritto, usate per escludere e umiliare dietro la parvenza della legalità. Sull’impronta fascista della prima versione del Codice Civile, entrato in vigore nel 1942, e sull’indifferenza degli esimi civilisti sui cui manuali tutta una generazione ha studiato e si è formata, insiste Giovanni Canzio, non si discute mai abbastanza. Non vi sono critiche o discussioni – o almeno, una menzione – in questi manuali, del fatto che il Codice indicasse, tramite lo strumento di leggi speciali, la razza come causa limitativa della capacità giuridica della persona; o che altri cavilli vennero individuati, con più difficoltà, per impedire l’attività delle società formate da ebrei (laddove, cioè, la personalità giuridica fosse propria dell’ente e non delle persone fisiche).
Così come, quando si studia la Costituzione, spesso non si approfondisce il contesto in cui fu elaborata. Ricomponendo le tessere, trova pieno significato l’articolo 22: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.
Alcune parole, nero su bianco, che come sono state scritte possono anche essere cancellate, se si lascia fare il serpente, nell’illusione che, stando immobili, prima o poi si stancherà e passerà oltre. Dopo aver inaugurato e applaudito la targa commemorativa, il futuro dipende da tutti noi.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.