Cultura Cinema
Mizrahim, il film della regista franco-israeliana Michale Boganim

Un viaggio intimista nelle città israeliane di frontiera, un viaggio nel tempo e uno nel divario sociale tra Mizrahim e Ashkenazim. Un’anteprima mondiale alla mostra del cinema di Venezia

La regista Michale Boganim ha lo sguardo dolce e sorridente mentre parla del suo film, presentato in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia. Eppure, il lungometraggio proposto come Evento speciale nelle Giornate degli autori affronta un argomento tutt’altro che leggero. Girato come un road movie, a metà strada tra il documentario e la fiction, Mizrahim, Les Oublies de la Terre Promise tocca un nervo scoperto della società israeliana, il destino cioè degli immigrati dai Paesi del Nord Africa e Medio Oriente, in particolare Yemen, Iraq, Algeria e Marocco, giunti in Israele a partire dagli anni Cinquanta.
Sradicati dalle proprie terre di origine dal sogno di partecipare alla costruzione di una nazione, i Mizrahim, come sono chiamati in ebraico, pensavano che in Israele avrebbero finalmente trovato, come recita il titolo, la terra promessa. Il padre di Michale era uno di loro. Giunto dal Marocco e cresciuto con l’illusione di farsi una vita e insieme formare un paese, si era ritrovato con tanti altri nordafricani e mediorientali esiliato nei nuovi quartieri che stavano sorgendo all’epoca in mezzo al nulla del deserto del Negev. Come racconta la regista nelle note di presentazione del film, il suo è un «viaggio intimista in quelle città israeliane di frontiera del tutto sconosciute e lontane dai soliti stereotipi. Sarà anche un viaggio nel tempo, all’epoca della costruzione dello Stato di Israele, quando la ripartizione geografica tra le “città dello sviluppo” e il centro ha contribuito a creare un divario sociale tra Mizrahim e Ashkenazim».

Boganim, che è nata ad Haifa nel 1977, intreccia storia personale e grande storia viaggiando lungo le strade di Israele, da un quartiere periferico all’altro dove ancora oggi sono spesso relegati gli ebrei di origini arabe e insieme raccontando una parte importante delle vicende del suo paese, perlopiù sconosciuta al di fuori dei confini israeliani. Emerge così il movimento delle Black Panthers, fondato negli anni Settanta sul modello di quello statunitense da parte di un gruppo di giovani attivisti Mizrahim che chiedevano di poter godere degli stessi diritti degli altri cittadini israeliani. Il padre di Michale, all’epoca trentenne, aveva partecipato alle attività e manifestazioni del gruppo, sedate dalla polizia e dalle forze governative, ma soprattutto passate in secondo piano agli occhi dell’opinione pubblica a causa della guerra.
Lo sguardo della regista anche in questo caso resta sereno ma fermo, non si lascia andare all’accusa fine a se stessa, ma si focalizza comunque sulle discriminazioni subite da tanti immigrati come suo padre così come da quelli che oggi sono i loro figli o nipoti. Concludendo, come racconta a Variety, che «gli ebrei dei paesi arabi hanno dovuto affrontare un pregiudizio sociale, culturale e persino economico in Israele», venendo considerati culturalmente inferiori rispetto a quanti affondavano le proprie origini nell’Europa orientale.
Accompagnata dalla figlioletta, che in alcune parti da interlocutrice si trasforma nel suo alter ego da piccola, la regista percorre Israele mostrando da un lato la vita del padre e cercando dall’altro i suoi antichi compagni di lotta, in massima parte scomparsi o dimenticati. Il viaggio nel presente mette in luce invece la vita di quanti sono ancora relegati al di fuori delle grandi città, privati di fatto di molti dei diritti fondamentali, in primo luogo le eque opportunità scolastiche e professionali.
Michale, che può vantare al contrario studi in Scienze politiche e Antropologia alla Sorbona di Parigi e di Filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme nonché un diploma alla National Film School di Londra, non dimentica però la laurea in Ingegneria del padre non riconosciuta in Francia, successivo luogo di esilio per la sua famiglia, e le discriminazioni attuali. «Quando ho incontrato questi giovani (…) mi sono resa conto che quello che stanno attraversando, il modo in cui hanno incanalato quella rabbia e sviluppato una cultura underground, è simile a quello che stanno facendo i figli di immigrati in molti paesi del mondo, per esempio negli Stati Uniti o in Francia», ha dichiarato a Variety. «È stato allora che ho capito quanto sia universale l’esperienza dell’immigrato».

Dopo aver firmato nel 2011 un film con Olga Kurylenko, La terre outragée, la regista franco-israeliana ha da poco terminato di girare Tel-Aviv/Beirut, un dramma storico ambientato sullo sfondo del conflitto israelo-libanese nel 1982 e nel 2006. Per il suo primo lungometraggio del 2005, il documentario Odessa… Odessa! sulla vita degli esuli ebrei della città ucraina, aveva ricevuto finanziamenti dalle commissioni cinematografiche israeliane, cosa inizialmente non avvenuta, invece, per Mizrahim. Secondo l’autrice, questa mancanza si spiegherebbe con il fatto che il tema trattato rappresenti ancora oggi un tabù in patria. In compenso, come ricorda Variety, il film ha ricevuto sostegni da Cinema du Monde del National Film Board francese e della regione Ile de France, mentre Israele ha dato comunque il suo supporto in post produzione. Uscirà in Francia all’inizio del 2022.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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