Hebraica Nizozot/Scintille
Moralità, ‘vie traverse’ e astuzia divina

Quando il fine giustifica i mezzi

Non scherzavo due settimane fa, interrogandomi se “il fine giustifichi i mezzi”, quando invitavo le lettrici e i lettori a valutare ed eventualmente a smentire la tesi per cui, nel giudaismo, i mezzi devono sempre essere etici e morali, non meno dei fini a cui devono servire. Purtroppo quel mio modesto esercizio di moralità ebraica, ispirato ad alcune mishnaiot dei Pirqè Avot, non ha ricevuto obiezioni, nessuno l’ha contraddetto. Nello spirito del Talmud, vorrei allora fare io delle obiezioni, smentendo e contraddicendo me stesso. La machloqet, la controversia o disputa, è così ebraicamente importante, per raffinare il giudizio e andare a fondo delle cose, che là dove non c’è occorre crearla. Ovviamente non parlo dell’eristica (parola greca che indica una conflittualità meramente retorica); parlo invece della machloqet rabbinica (il termine viene dal cheleq, in ebraico significa ‘parte’ o ‘prospettiva’) ossia della coscienza per la quale, quando discutiamo, ciascuno incarna sempre e solo una prospettiva e abbiamo bisogno degli altri per vedere le cose da prospettive diverse, incrociando e integrando le valutazioni. La verità si fa così strada attraverso il confronto umile ma sincero di chi, studiando ed esercitando analisi e senso critico, contribuisce a cercarla. Questo tipo di machloqet è detta, sempre nei Pirqè Avot (V,23), “per amore del Cielo”.

Dunque, è vero che un fine giusto, etico e nobile, vada sempre perseguito soltanto con mezzi altrettanto etici? Nella mia riflessione precedente ho addotto exempla biblici in tal senso; ma che diremmo se ora trovassimo altri exempla, presi a loro volta dalla Torà, che palesemente mostrano il contrario, che certi fini, importanti e nobili, sono stati perseguiti con mezzi moralmente dubbi, se non disdicevoli e disonorevoli? La machloqet esige che si indaghino anche le ‘vie traverse’… dove un po’ di machiavellismo non solo è ammesso ma sembra quasi necessario. Si prenda, per cominciare, il caso delle figlie di Lot in Bereshit/Gn 19,30-38: esse videro che, senza figli maschi, il loro padre non avrebbe avuto una progenie; e poiché questo fine era ritenuto giusto e importante, orchestrarono a sua insaputa (lo ubriacarono!) un incesto da cui venne la discendenza di maobiti e ammoniti. Lo scopo era nobile ma i mezzi erano immorali (la Torà proibisce severamente l’incesto); tuttavia, al termine del racconto, le figlie di Lot nipote di Abramo non sono condannate, anzi hanno raggiunto per vie moralmente sbagliate lo scopo… e una moabita – Ruth – diventerà la bisnonna del re David.

È un’eccezione che non intacca la regola, si obietterà. Ecco allora un’altra storia, quella di Giuda, figlio di Giacobbe, e di sua nuora Tamar, narrata in Bereshit/Gn 38: anche qui il fine era generare una discendenza, una posterità e il futuro di una tribù israelitica, e la ‘via traversa’ escogitata, ingannando Giuda, fu un atto di prostituzione (anch’essa condannata dalla Torà) da cui nasceranno Perez e Zerach. Giuda alla fine ammise che “Tamar era stata più giusta di lui”. La Bibbia dunque non sono non condanna quello specifico atto immorale e illegale ma, alla luce del fine, lo assolve e quasi lo esalta. Dunque, a volte, le ‘vie traverse’ sono ammesse e la trasgressione va interpretata in un contesto (un progetto?) più grande. Ma forse il caso più eclatante è l’inganno ai danni di Isacco ed Esaù perpetrato da Rivqa [Rebecca] e da Giacobbe: il fine era ottenere per quest’ultimo la benedizione paterna… e la promessa divina. Il caso è in Bereshit/Gn 27 e, come noto, ad architettare bugie e messinscena fu la matriarca. Giacobbe è astuto ma sua madre lo è di più; Isacco non è nel pieno delle sue facoltà fisiche (e forse mentali); con l’inganno la benedizione è carpita… Da notare che Rashi, nel XI secolo, nel suo commento a quest’episodio cercò di scagionare sia Rivqa sia il secondogenito di Isacco, dato che alla fine questa era… la volontà divina! Ma per Giacobbe ci vorrà l’esilio presso lo zio Labano (che lo ingannerà a sua volta nel dargli moglie) e la lotta notturna con l’angelo allo Jabbok, prima che il terzo patriarca faccia teshuvà e restituisca – come ha suggerito rav Jonathan Sacks – la benedizione che non era destinata a lui… Anche qui, fini giusti, forse voluti da Dio, ma perseguiti con mezzi dubbi, se non addirittura disdicevoli.

Altri esempi potrebbero forse essere portati. È dunque lecito chiedersi se, a volte e in determinate circostanze, un fine superiore – o ritenuto tale – non ammetta, o addirittura non richieda il ricorso a mezzi, o meglio a espedienti che, in circostanze normali, non sarebbero affatto ammissibili, almeno secondo gli standard etici normali. Ma chi può decidere sulla superiorità di quel fine? Chi può assolvere l’uso di un mezzo improprio nel conseguimento di un fine desiderabile e raccomandabile? Non si corre il rischio di un’etica sdoppiata, di un doppio standard, tale da permettere ad alcuni quello che si nega o si proibisce ad altri? L’etica ebraica può accettare questo doppio standard? Non si corre il rischio che i nostri fini, solo perché ‘nostri’, siano ritenuti automaticamente superiori ai fini altrui, legittimando per noi l’uso di mezzi che condanniamo quando sono altri ad usarli? Domande difficili, che non bisogna ignorare.
La Torà, ossia i casi che abbiamo citato, è pur sempre un testo nel quale le cose umane si intrecciano con i progetti divini. Pertanto tentiamo di cercare lumi in un maestro che ha scandagliato il tema dei fini e dei mezzi nella Torà e ha fatto una riflessione che può, se non risolvere tutti i nostri dubbi, almeno illuminare la questione. Parlo di Maimonide, naturalmente. Il grande halakhista e filosofo sefardita, nella Guida dei perplessi, ragiona sul senso dei sacrifici animali ordinati dalla Torà, i korbanot, che furono prescritti – a suo dire – solo come mezzi pedagogici per educare e affinare i figli di Israele al culto vero, quello del cuore. E si chiede: come Dio ha potuto prescrivere mezzi di per sé di natura idolatrica (usati da tutti i popoli idolatri con cui Israele era venuto in contatto) per insegnare a sradicare l’idolatria? Un fine altissimo, il culto interiore del Dio uno e unico, perseguito con mezzi così grossolanamente simili al culto esteriore degli idolatri? Questione serissima, alla quale il Rambam risponde con un termine-concetto incredibile, di sapore quasi-hegeliano: fu un’astuzia divina, un artificio! “Un’astuzia divina usata da Dio nei nostri confronti per conseguire la sua intenzione prima”: educarci in modo graduale al culto spirituale (cfr. Guida, III, 32). Il Rambam immagina il “disgusto” del suo allievo, a cui idealmente la Guida è rivolta, dinanzi a quest’ipotesi teologica. Ma forse essa è meno peregrina di quanto immagini la nostra logica di anime belle, per stare al linguaggio di Hegel. Come si vede, sul rapporto tra fini e mezzi, anche in termini ebraici le cose sono più complesse di quel che la filosofia riesca a elaborare. Shakespearianamente, ci sono più cose tra cielo e terra…

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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