Husayni-al Amin era un nome noto solo agli studiosi. Poi, un giorno Netanyahu ha dichiarato: “altri attacchi alla comunità ebraica nel 1920, 1921, 1929, furono istigati da un appello del muftì di Gerusalemme”
«È vero che i nostri nemici comuni sono la Gran Bretagna e i sovietici, i cui principi sono opposti ai nostri. Ma dietro di essi si nasconde l’ebraismo che guida entrambi e che, in questi due paesi, ha un solo obiettivo. Contro queste due nazioni siamo attualmente impegnati in una battaglia per la vita o per la morte, che non determinerà solo l’esito della lotta tra nazionalsocialismo ed ebraismo; infatti, l’intera condotta di questa guerra vittoriosa sarà di grande e concreto aiuto agli arabi impegnati nella stessa lotta». Così Hitler ad un signore dall’aspetto misurato e dai toni gentili, vestito integralmente con un elegante caffettano nero e un turbante chiaro. Sono le parole che il secondo attribuisce al primo.
Chi era Muhammad Husayni-al Amin (o anche Haj Amin-al Husseini e altro ancora, a seconda di come lo si traslitteri e lo si qualifichi)? Il nome è da sempre noto a tutti gli studiosi della politica mediorientale ed in particolare agli storici. Meno conosciuto, invece, lo era al grande pubblico prima che nell’autunno del 2015 il premier israeliano Benjamin Netanyahu lo chiamasse direttamente in causa quando, dinanzi ad una platea selezionata, quella del World Zionist Congress, riunitasi a Gerusalemme il 21 settembre, ebbe modo di affermare che: «And this attack and other attacks on the Jewish community in 1920, 1921, 1929, were instigated by a call of the Mufti of Jerusalem Haj Amin al-Husseini, who was later sought for war crimes in the Nuremberg trials because he had a central role in fomenting the final solution. He flew to Berlin. Hitler didn’t want to exterminate the Jews at the time, he wanted to expel the Jews. And Haj Amin al-Husseini went to Hitler and said, “If you expel them, they’ll all come here.” “So what should I do with them?” he asked. He said, “Burn them”» («E questo attacco e altri attacchi alla comunità ebraica nel 1920, 1921, 1929, furono istigati da un appello del muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, che in seguito fu ricercato per crimini di guerra nei processi di Norimberga perché aveva un ruolo centrale nel fomentare la soluzione finale. È volato a Berlino. Hitler non voleva sterminare gli ebrei in quel momento, voleva espellere gli ebrei. E Haj Amin al-Husseini andò da Hitler e disse: “Se li espelli, verranno tutti qui”. “Quindi cosa dovrei fare con loro?” chiese. Disse: “Bruciali”»).
Alla pesante dichiarazione, un mese dopo il primo ministro aveva poi aggiunto, a mo’ di parziale rettifica, che «la decisione di cambiare politica nei confronti degli ebrei dalla semplice deportazione fino allo sterminio è stata presa dai nazisti, e non è stata influenzata da opinioni esterne. I nazisti vedevano nel muftì un loro collaboratore, ma non avevano bisogno di lui per approvare la sistematica uccisione degli ebrei europei iniziata nel giugno 1941». Tra le reazioni più importanti alle affermazioni del primo ministro israeliano c’era stata quella di Steffen Seibert, portavoce di Angela Merkel che aveva affermato: «Tutti i tedeschi conoscono la storia dei nazisti che ha portato a quella rottura con la civiltà che è stato l’Olocausto. Tutto questo viene insegnato nelle scuole tedesche per una buona ragione, non deve mai essere dimenticato. E non vedo alcun motivo per cambiare la nostra visione della storia. Conosciamo bene l’origine dei fatti ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi».
Isaac Herzog, già leader dell’Unione Sionista (partito laburista di centro-sinistra) a sua volta aveva scritto che la versione di Netanyahu è una «distorsione storica pericolosa» che «riduce al minimo l’Olocausto, il nazismo e la responsabilità di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo». Herzog aveva aggiunto che «il figlio di uno storico dovrebbe conoscere bene la storia», che Netanyahu ha dimenticato il suo ruolo, che il Gran muftì «ha dato l’ordine di uccidere mio nonno, il rabbino Herzog, e ha sostenuto attivamente Hitler», ma anche che «c’era un solo Hitler: colui che ha scritto il Mein Kampf e che nel gennaio del 1939, quasi tre anni prima dell’incontro tra Hitler e al-Husseini, aveva parlato al Reichstag e aveva presentato la “soluzione finale”».
Altre organizzazione ebraiche e sioniste, già da tempo in rotta di collisione con il premier, avevano rincarato la dose, arrivando ad affermare che «il primo ministro dello Stato ebraico si è messo al servizio dei negazionisti dell’Olocausto», aggiungendo che che i «33.771 ebrei uccisi a Babi Yar nel settembre del 1941, cioè due mesi prima che il muftì e Hitler si incontrassero, dovrebbero essere riesumati e aggiornarti del fatto che i nazisti non volevano sterminarli». Non è la prima volta che Netanyahu andava facendo delle simili affermazioni: durante un discorso alla Knesset, nel 2012, aveva descritto Husseini come «uno dei più importanti architetti» della soluzione finale. Questa tesi era stata presentata anche da alcuni storici della Shoah, ma è stata respinta dagli studiosi più accreditati come marginale e poco fondata.
Quanto il ruolo dell’autorità “spirituale” arabo-musulmana sia stato rilevante, se non decisivo, nel percorso di radicalizzazione delle scelte naziste che portarono allo sterminio sistematico delle comunità ebraiche nei territori occupati dalle armate tedesche, è materia di discussione. Che intendesse liberarsi degli ebrei è fatto certo, rivendicato allo spasimo dal medesimo protagonista. Al di là dell’ipoteca storiografica formulata dal primo ministro Netanyahu, rimane il fatto che il politico palestinese fu al medesimo tempo cinque soggetti in uno: un aspro e durissimo esponente del nazionalismo panarabo prima e del nazionalismo palestinese poi, delle cui istanze, spesso contraddittorie tra di loro, si eresse a maggiore esponente nell’area mediorientale, in ciò tuttavia contrastato da altri capi in cerca di visibilità, che finirono con l’oscurarlo e il soppiantarlo quando l’evoluzione del quadro geopolitico e storico lo permise; al medesimo tempo un antagonista del sistema coloniale franco-britannico, dalla cui dissoluzione confidava di cogliere i maggiori benefici per la sua parte, ed un estimatore profondo, brutalmente “sincero”, del modello ideologico nazista; un pervicace antisionista, la bandiera dietro la quale diede corpo al suo viscerale antisemitismo, identificando l’ebraismo con la “modernità” e quest’ultima con il colonialismo corruttore, oltre che con le peggiori nefandezze dei tempi correnti; un precursore, sia pure atipico dal punto di vista dottrinario (a fronte della modestia della sua produzione intellettuale che, per buona parte, ebbe poco o nulla a che fare con la dottrina e la teologia musulmane), del radicalismo islamista, di cui raccolse e strutturò le istanze politiche che dagli anni Venti in poi vennero definendosi, dandogli corpo e sostanza; il figlio di una delle più importanti famiglie del notabilato arabo, composto dagli Husseini, dai Nusseibeh, dai Khalidi, dai Dajani, dai Nashashibi (suoi acerrimi avversari), fino agli Alauri che componevano, nel loro insieme, la rigida tessitura di una aristocrazia terriera e latifondiaria, basata sul legame verticale e gerarchico tra gli «effendi» (posti ai vertici) e i «fellahim», il bracciantato rurale. Un legame di vincoli e subalternità apparentemente inamovibili, intrecciate con la disposizione amministrativa dell’Impero ottomano di cui i distretti che componevano l’area della futura Palestina mandataria erano il territorio elettivo di azione dei militanti arabo-islamisti, e che ebbe parte non secondaria nelle dinamiche dello sviluppo del movimento nazionalista locale.
Di lui, morto a Beirut nel 1974, dopo un’esistenza tanto pirotecnica quanto sostanzialmente fallimentare sul piano dei risultati politici, rimane la solida immagine di un agitatore indefesso, ostile innanzitutto all’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria e poi alla nascita d’Israele. Alla prima e al secondo, in competizione con gli altri esponenti del nazionalismo arabo e poi del panislamismo, andava contrapponendo invece la generazione di uno Stato musulmano, legato all’ipotesi di una “grande Siria”, saltando per più aspetti a piè pari le brutali ma inossidabile logiche della spartizione mandataria attuata con gli accordi segreti Sykes-Picot del 1916, sottoscritti dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Fin qui, peraltro, nulla di nuovo. Ben diverse, invece, sono le relazioni pericolose, i legami spavaldi e intollerabili, con l’Italia fascista prima e poi, in un comune sentire evidentemente ancora più gratificante di quello velleitariamente offertogli da Roma, con la Germania nazista. Comprovato è il suo sforzo, tra gli altri, per il reclutamento (in parte riuscito, soprattutto in Bosnia) dei musulmani nelle formazioni internazionali delle Waffen-SS; la compromissione con l’Abwehr, l’intelligence militare tedesca; i rapporti con alcuni dei maggiori esponenti delle SS; i due incontri con Hitler, tra il 1941 e il 1942 che, tuttavia, suggellarono soprattutto la dipendenza del muftì dal secondo.
La base comune era l’antisemitismo, ovvero la lotta contro il «giudeo-bolscevismo». Quanto all’apertura di credito che il duce tedesco gli offrì, al di là dell’ovvio gradimento per tutto quanto Husayni-al Amin portava generosamente in “dono” – a partire dalla corresponsabilità nei diversi moti antiebraici succedutisi dal 1921 alla Seconda guerra mondiale, passando per l’avversione nei confronti degli inglesi, continuando con l’adesione all’antisemitismo apocalittico e «redentivo» (Saul Friedländer) di Berlino per giungere, infine, alla concezione dell’identità musulmana come di un totalitarismo ideologico per più aspetti omologo a quello nazista -, la questione non è ancora del tutto risolta sul piano storiografico. Poiché Hitler intrattenne sempre e comunque un rapporto di reciprocità calcolata con un personaggio che, per più aspetti, se da un lato poteva risultare funzionale alla politica mediterranea e araba di Berlino, dall’altro risultava problematico per più di un aspetto riguardo ai progetti di lungo corso nel merito di “nuovo ordine orientale”.
Peraltro, il muftì gerosolimitano, nel suo sgomitare ossessivo, scontava anche la competizione di altri leader arabi e musulmani i quali lo considerarono sempre e comunque una figura di scarso valore. Non è un caso se abbia faticato nell’avanzare nel corso degli studi, di fatto interrompendoli ed assurgendo poi al ruolo spirituale, morale e civile di Muftì in base alla nomina voluta da parte dell’allora Alto commissario britannico per la Palestina mandataria, sir Herbert Samuel (un ebreo, per intenderci), nel 1921, in una rosa di cinque nomi dove Husayni-al Amin risultava non solo tra le figure più deboli ma anche la peggio accreditata dinanzi alla comunità musulmana. Non era infatti né uno “shaykh”, non avendo visto riconosciuta l’autorevolezza che ad altre figure era invece garantita, né un sapiente in materia religiosa, in grado quindi di emanare decisioni tali da imporsi sulla comunità dei credenti. L’unica qualifica corrispostagli con certezza, oltre ad un diploma alla Scuola di amministrazione di Istanbul (cosa ben diversa dai più prestigiosi studi religiosi al Cairo, nei quali non sembra che avesse avuto modo di eccellere), fu quella di «pellegrino», avendo compiuto nel 1913 il viaggio rituale a La Mecca. Era invece, nella sua apparente debolezza contrattuale (elemento che sicuramente pesò nella decisione di Samuel, convinto di potere integrare un esponente altrimenti sovversivo dentro la ragnatela dei rapporti istituzionali), un elemento affine al radicalismo, poiché la sua maturazione ideologia era avvenuta in qualità di allievo di Rashid Rida (1865-1935), il dominus intellettuale e politico della cosiddetta «rinascita araba», dentro la quale maturarono tutti gli elementi che sarebbero poi stati recepiti e raccolti nel fondamentalismo islamista, dal secondo dopoguerra in poi: l’avversione programmatica contro l’«Occidente»; l’enfatizzazione del Jihad come precetto fondamentale della fede coranica e della prassi dell’uomo pio e praticante; il rimando alla Sharia come fonte primaria (ed unitaria) nella legislazione e nella vita associata; un antisionismo viscerale, che si trasfondeva nell’antisemitismo programmatico, quest’ultimo probabilmente coltivato avendo assistito, e forse anche in qualche modo partecipato, al genocidio degli armeni, nella sua qualità di ufficiale dell’esercito ottomano, stanziato con la sua unità di artiglieria nella città di Smirne fino al 1916.
L’adesione alla Fratellanza musulmana, negli stessi tempi della sua fondazione in Egitto, testimonia di questa impostazione di fondo, che rimandando alla visione wahhabita dell’Islam, che predica la “purezza” della terra consacrata attraverso l’espulsione o l’eliminazione dei non credenti, degli apostati, delle stesse minoranze. I fatti successivi, dalla corresponsabilità nei massacri di Hebron (1929) fino alla totale compromissione con la politica dell’Asse tripartito, sono questioni che accompagnano come un’ombra inquietante la fisionomia e il ruolo politico del muftì gerosolimitano. Fino ai giorni nostri, laddove ci deve confrontare con il suo “lascito”, coltivato da ineffabili nipotini di rigorosa aderenza fondamentalista.
La visione apocalittica del mondo che accompagna lo jihadismo odierno, infatti, coniuga la diabolizzazione degli ebrei, la visione complottistica degli ordinamenti umani (la saldatura tra «crociati», americani e, più in generale, non musulmani, con i «sionisti») nonché la retorica del sacrificio personale come «martirio» di sé e distruzione fisica degli altri. Già all’atto della fondazione del «Fronte islamico mondiale per il jihad contro gli ebrei e i crociati», nel febbraio del 1998, quando fu formalizzata e pubblicata la sua «Dichiarazione» di nascita, firmata da Osama Bin Laden e Ayman al-Zawahiri, l’intendimento era nettamente esplicitato. Le cose hanno poi assunto quelle pieghe della storia più recente che ci sono maggiormente note. La genealogia, tuttavia, risale al passato. Il marchio d’origine, infatti, rinvia ancora una volta ai Fratelli musulmani. Le successive rielaborazioni, passate anche attraverso l’attiva mediazione del gran muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, (uno dei più importanti registi nell’evoluzione del radicalismo islamista nel momento del suo definitivo transito dal suo stadio iniziale di movimento culturale e d’ispirazione neoreligiosa a progetto politico), hanno assunto in pieno la centralità della “questione sionista”.
Due considerazioni si impongo, al riguardo. La prima di esse rimanda al fatto che l’islamismo radicale non è esclusivamente una versione accentuata (e rancorosa) del pensiero musulmano. Semmai ne rappresenta una sorta di superamento, identificando infatti nel proprio campo il primo bersaglio sul quale esercitarsi. Come ogni forma di totalitarismo ha bisogno di “depurare” prima di tutto ciò che gli sta intorno, distruggendone la varietà e il pluralismo, per poi procedere oltre, ossia verso altre mete. Le comunità islamiche non conformi sono quindi l’immediato bersaglio sul quale esercitarsi, riordinandole ferocemente, in quanto sottoposte alla pressione tellurica della violenza, in base al proprio comando. L’essenza del jihadismo è quindi il ricorso alla paura, che è tanto più forte quanto più viene introiettata come regola nelle relazioni sociali. Il ricorso sistematico alla ferocia, esibita e rivendicata, serve pertanto a questo obiettivo. Non è un gratuito esibizionismo, l’omaggio al gusto per l’orrido bensì uno strumento di potere. Anzi, per più aspetti la dichiarazione che il “vero potere” è essenzialmente barbarico nella sua originaria radice. Dinanzi a ciò, molti possono rifuggire inorriditi; altri, tuttavia, ne rimangono sedotti e quindi coinvolti. Non c’è bisogno che i secondi costituiscano moltitudini. Semmai necessita che siano in grado di condizionare i primi, la grande maggioranza delle persone, nella loro vita quotidiana.
Detto questo, la seconda considerazione da fare è che il jihadismo è innanzitutto un fenomeno militante, ossia basato sulla presenza attiva di un numero sia pure ristretto di “iniziati”. Al medesimo tempo, la sua ossatura ideologica ruota esclusivamente intorno al «jihad sulla via di dio», inteso come obbligo rivelato, ossia come il sesto pilastro della fede. Esso surclasserebbe i cinque precedenti, invece inutilmente praticati dai musulmani non “militanti” (intesi quindi come comunità di fedeli quietisti, da piegare e rieducare con la forza). La nozione di jihad intesa e praticata dalla filiera jihadista scardina le fonti tradizionali. Ne costituisce, infatti, un ribaltamento per più aspetti. Il jihadismo lotta non solo contro ciò che qualifica come empietà, apostasia e “ignoranza” ma anche e soprattutto per una peculiare idea di società, permanentemente mobilitata in uno spasmodico sforzo e in un continuo impegno contro quanto è denunciato come permanente minaccia. In altri termini, tutto ciò che fuoriesce dal proprio perimetro identitario, altrimenti ricondotto ad oggetto di ossessivo controllo.
Hassan al-Banna, alla fine degli anni Trenta (un periodo non casuale, essendo il momento della fioritura storica dei peggiori totalitarismi), parlava, tra le altre cose, di «arte della morte», rifacendosi ancora una volta al martirio «sulla strada di dio» come ad un dovere e, al medesimo tempo, un ideale per ogni autentico musulmano: «ad una nazione che perfeziona l’industria della morte e che sa come morire, dio dona una vita fiera in questo mondo e la grazia eterna nella vita a venire». Di veri credenti, per al-Banna, ce ne erano pochi. La missione sua e della sua parte politico-ideologica era quindi quella di stabilire chi dovesse essere ritenuto tale – una minoranza eletta – e quanti, invece, dovessero essere trattati, nella migliore delle ipotesi, come soggetti da redimere. Nel 1943, in piena guerra mondiale, il medesimo autore islamista definiva la «guerra santa» nella sua natura di combattimento totale, globale, rivoluzionario, eversivo ma anche permanente: «il primo livello del jihad consiste nell’espellere il male dal proprio cuore; il grado più elevato è la lotta armata per la causa di dio. I livelli intermedi sono gli sforzi per la parola, la penna, per la mano e l’idea di verità che si inviano [e contrappongono] alle autorità ingiuste. Il nostro movimento di apostolato non può vivere che attraverso il combattimento». In tale quadro, il riferimento agli ebrei si inserisce, passo dopo passo, come definizione di un bersaglio prediletto.
Il lievitare del confronto tra l’Yishuv e una parte del mondo arabo, in quegli anni, costituiva la cornice adeguata per provvedere ad una drammatizzazione sistematica della propria proposta ideologica. Laddove questa segnava il passaggio del jihad da mezzo individuale (e perlopiù spirituale o comunque di natura prevalentemente difensiva) a fine in sé. Un salto di qualità, per così dire, che per realizzarsi ha la necessità di dotarsi di un nemico assoluto, nei confronti del quale esercitarsi istericamente. Il «sionismo» era allora il nuovo orizzonte contro il quale orientarsi. Di lì a non molto, complice il contributo di al-Husseini, anche il tema dell’«antimperialismo» si sarebbe definitivamente saldato con un antigiudaismo di nuovo conio. Per il gran muftì di Gerusalemme, infatti, la possibilità di generare un movimento nazionale palestinese sotto la sua direzione si era identificata, già con la fine degli anni Venti, con la guerra contro gli ebrei e l’ebraismo. Il jihadismo odierno, quindi, si alimenta di questa filiera storica e ne rivendica a pieno titolo l’eredità. Si tratta, a modo suo, di una “tradizione” quasi centenaria, che si inserisce a pieno titolo dentro la logica dei movimenti politici che ricorrono a discorsi teologici ed escatologici per capovolgere il senso della vita rivestendolo del gusto per la morte. Non si tratta di una novità ed anche per questo ci si dovrà confrontare a lungo con questa brutale deriva della ragione umana.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.