Un fim israeliano su un luogo residenziale, sorto sopra le macerie del ghetto, commentato dell’architetto Guido Morpurgo e dello scrittore Włodek Goldkorn
Film importante Muranow del regista israeliano Chen Shelac. In cartellone alla Cineteca di Milano per la rassegna Nuovo Cinema Ebraico e Israeliano lunedì 22 novembre (alle ore 17), parla dell’omonimo quartiere di Varsavia. Attualmente, cioè dal dopoguerra, è un quartiere residenziale, fatto di ampi spazi aperti e finestre sul verde di edifici modernisti. Si comincia da lì, da una piazzetta con un bel cinema intitolato a Muranow, per entrare poi nelle case dei suoi abitanti, nelle loro vite, nella loro storia, quindi nella storia della città, in particolare di quella porzione così densamente popolata di memoria e oblio.
Difficile dimenticare a Varsavia: la storia è ancora viva, il passato è presente, la sua ricostruzione perpetua. Ma vale anche il contrario: la Shoah si può ignorare, in favore di una città funzionale, con un centro storico perfettamente ricostruito e amato dai turisti e alti grattacieli a riformularne lo skyline. Così entriamo nella narrazione di Chen Shelac che racconta come si vive oggi nel quartiere di Muranow, una zona costruita sopra le macerie di quello che è stato il ghetto. Il glorioso ghetto della rivolta, campo di concentramento urbano, luogo di morte, malattia e terrore. Le sue dimensioni sono cambiate tante volte nella sua storia, perché i nazisti ne modificavano continuamente la planimetria, tanto da aver messo a punto porzioni di muro in legno proprio perché fossero spostabili. Era diviso in due, c’era il ghetto piccolo, abitato per lo più da intellettuali, e quello grande, Muranow, appunto. La densita della popolazione era talmente alta per metro quadrato che era impossibile sopravvivere per prossimità con le malattie infettive e irrespirabilità dell’aria. Poi, la decisione di distruggerlo. “Hitler ordinò di distruggere il ghetto”, spiega l’architetto Guido Morpurgo, studioso della Shoah, progettista, tra gli altri, del Memoriale di Milano ed esperto della storia di Varsavia, “Mandò a Varsavia un generale con questo preciso compito. Questi fece numerare tutti gli edifici per poi bruciarli, quindi minarli e farli saltare. La cosa è profondamente diversa dal bombardamento e questa è una premessa che va fatta al film”. Quindi continua Morpurgo: “Il ghetto di Varsavia era un organismo complesso che mutava in funzione dello sterminio, era un vero e proprio campo di concentramento, con ebrei deportati da altri paesi e rinchiusi lì, che poi è stato liquidato, per usare un’espressione cara ai nazisti. Lo sterminio è partito da Sud, dal ghetto piccolo, per poi arrivare a Murnow. E quando scatta la seconda fase dell’insurrezione, per i nazisti la guerra è già persa, si stanno ritirando ed è in quel momento che decidono la distruzione scientifica di questo luogo. Che significa non solo uccidere i rivoltosi, ma anche cancellare questa vicenda dalla storia”.
Ci sarebbe molto da dire su Varsavia stessa, su questa città al centro di una distruzione progettuale sin dal 1939, come racconta Morpurgo, per farne un avamposto contro l’Unione Sovietica e poi, nel 1945, al centro di un quesito importante: ricostruire la città oppure spostare la capitale della Polonia altrove? “L’area del ghetto era occupata da circa 13milioni di metri cubi di macerie e a guerra finita la città ne ospitava tra 20 e 25 milioni. Ecco perché la decisione di ricostruire è radicale e implica di fare i conti con quelle macerie”, spiega ancora Morpurgo, che poi racconta come è avvenuta la creazione di questo quartiere modernists, fedele all’ideologia staliniana. “Un progetto molto sofisticato: gli architetti che hanno disegnato il quartiere avevano l’intenzione di serbare la memoria di quanto è accaduto”, precisa Morpurgo.
Ecco, siamo entrati nel film, un documentario sulla vita al presente, che raccoglie voci e testimoianze degli abitanti attuali, tra memoria e oblio. “Il quartiere è stato costruito di proposito come luogo di oblio”, commenta Włodek Goldkorn, giornalista e scrittore polacco di casa a Firenze, “Ma gli architetti che hanno costruito sopra quelle macerie non avevano cattive intenzioni. Prima della guerra quello era un luogo infernale e gli architetti avevano in testa quel posto, non il ghetto, paradossalmente. E altretttanto paradossalmente, quello è diventato un luogo di memoria da subito, appena finita la guerra la gente si radunava lì per commemorare la rivolta e si continua a farlo. Questa dialettica è molto forte, per esempio sopra la sinagoga centrale ora sorge un grattacielo…”. Il regista si pone sul filo, sa mostrare queste due facce ed entra negli incubi di chi abita a Muranow ma non ne sopporta la storia: vivere sulle macerie significa vivere insieme a morte e distruzione. Significa abitare in un cimitero. Significa vedere i fantasmi. “I fantasmi ci sono veramente”, commenta Goldkorn, “sotto le case ci sono persone sepolte, ci sono resti umani e i mattoni spesso contengono anche ossa… è qualcosa di terribile. Poi naturalmente c’è anche chi non sente queste presenze, come una mia cara amica che ci abita ed è una studiosa della Shoah e di Varsavia”. E poi c’è chi non vuole ricordare, chi sa ma fa finta di niente e chi sta con i nazionalisti. C’è tutto, a Muranow. Ma allora, viene da chiedersi, che cos’è la memoria?
“La memoria è cosa viva“, risponde Goldkorn, “Mi interessano i giovani, ebrei e non ebrei, che interpretano la memoria come forma di resistenza. Al nazionalismo prima di tutto, per sostenere la città multiculturale: come fai a essere antisemita nel Paese che è stato teatro della Shoah? Ecco, la memoria non conta niente se non serve per fare futuro”. Si rischia di strumentalizzare la Shoah? “La Shoah va usata. La sua memoria ci dice che cosa può succedere quando il male prende il sopravvento. Lo so, ho una visione poco ortodossa, ma io credo che esistano persone che vogliono il male. E quel cinismo radicale può portare alla Shoah, che è a sua volta nihilismo radicale, rovesciamento dei valori della civiltà umana. Ecco perché va usata: bisogna conoscere la storia per fare il futuro”. Per Morpurgo, “La memoria è anche questo film. Mostra un luogo in cui bisogna perdersi, passare del tempo, abitarci quasi. Varsavia è lì, è da vedere, presenta le responsabilità dei nazisti ma anche della Polonia stessa, Varsavia è una ferita aperta e deve essere tale per sempre“. Si può conservare in un museo, nella fattispecie al Polin? “Secondo me i luoghi della Shoah vanno interpretati come luoghi specifici e devono avere come obiettivo quello di diventare parte della coscienza collettiva. Ma qui a Varsavia, quello che andrebbe svelato è stato coperto con un edificio à la page (che tra l’altro invecchia facilmente). Occorreva prendere le misura del sostrato, testimoniare quel che c’era e quel che c’è sotto il terreno e non proporre mostre muscolari sul tema della memoria. Ecco perché questo film è importante: cerca risposte, ma soprattutto, pone domande”.
Chen Shelac, Muranow, Cineteca Milano, 22 novembre ore 17.
Con un dibattito fra lo scrittore Włodek Goldkorn e l’architetto Guido Morpurgo