Cultura
Musica e spiritualità nella cultura hassidica. Tra passato e presente

Se la musica è la porta verso la spiritualità e il canto un mezzo per raggiungerla, non possono esistere confini tra sacro e profano. Piccolo compendio di filosofia hassidica della musica

Come nel romanzo Lo Sthetl perduto di Max Gross, la musica ebraica chassidica sembra essere entrata a contatto con la modernità di colpo nei primi anni 2000, generando sonorità in linea con il panorama musicale contemporaneo, senza rinunciare al valore spirituale. Ma è stato un passaggio veramente brusco, come accade ai protagonisti del romanzo, oppure ci sono stati elementi che attraverso i secoli abbiano giustificato, accelerato e invogliato questa transizione?

Rav Jonathan Saks afferma che non sia proprio casuale che la prima azione che fecero gli ebrei appena usciti dall’Egitto, quando si sentirono uniti per la prima volta come un’entità sociale proto-nazionale, fu cantare (Esodo 15:1). Il legame con la musica, già introdotto dal Re David e i suoi canti e la sua stessa arpa, citata dal Talmud, appesa sulla parete alla testata del letto le cui corde producevano note alla brezza notturna, è forte e ha origine nella Torah.
C’è una connessione interiore tra la musica e lo spirito. Nel momento in cui il linguaggio aspira al trascendente e l’anima desidera ardentemente liberarsi dall’attrazione gravitazionale della terra, si ha la modulazione del canto. La musica, ha detto Arnold Bennett, è “un linguaggio che solo l’anima comprende ma che l’anima non può mai tradurre”. Richter la definiva “la poesia dell’aria”, mentre Tolstoj lo chiamava “la scorciatoia dell’emozione”. Per Goethe si trattava del principio secondo cui “il culto religioso non può fare a meno della musica. È uno dei mezzi più importanti per lavorare sull’uomo con un effetto di meraviglia. Le parole sono il linguaggio della mente. La musica è il linguaggio dell’anima”.

Un legame che è rimasto inalterato e, pur con diverse espressioni più che vivo attraverso i secoli. I passaggi storici sono diversi ma descrivono l’inscindibile unione tra musica, spiritualità, tradizione e culto. Il Rinascimento italiano riporta diversi nomi di musicisti ebrei, diversamente dal nord europa. Tra le opere tramandate merita una particolare attenzione l’Hashirim asher lish’lomo (Cantici di Salomone) pubblicata in due volumi a Venezia nel 1622-23, e contenente trentatré canti sacri ebraici per coro da tre a otto voci di Salomone Rossi, Shlomo Mi-ha-Adoumim in ebraico, che contrariamente a molti altri compositori rimase fedele alla propria religione. L’interesse per questi cori di innegabile bellezza nasce dal fatto che costituiscono uno dei primi tentativi di introdurre la musica colta polifonica nel culto del tempio. L’opera di Rossi venne pubblicata successivamente dal cantore parigino Naumber, preceduta da una prefazione del famoso poeta ebreo Jeudah Arjeh Modena, il quale nella sua gioventù aveva studiato canto e musica, come racconta egli stesso nella sua autobiografia.

Il connubio musica-ebraismo ricercato dal Rossi è di fatto una rilettura di ciò che si svolge ancora oggi quotidianamente nei riti nel tempio. Quando si prega non si legge, ma si canta. Nel momento in cui ci si approccia alla Torah non si recita, ma si canta. La dimensione testuale e temporale nell’ebraismo ha una sua specifica melodia. Ci sono melodie per le Sachrit, Minchà ed Arvit, come canti ad hoc per le festività.
Lo straordinario potere della musica di evocare emozioni è facilmente comprensibile nella preghiera Kol Nidrei con cui inizia lo Yom Kippur, che di per sé non è propriamente una preghiera. Può apparire più come una formula legale per l’annullamento dei voti, ma è proprio la sua melodia, al contempo antica e inquietante, ad aver avuto un ruolo di forte impatto nell’immaginario ebraico. È difficile ascoltare quelle note e non sentire di essere alla presenza di D-o nel Giorno del Giudizio, coralmente con tutti i correligionari uniti nella supplica. È il sancta sanctorum dell’anima ebraica. Lo stesso Beethoven cercò di avvicinarsi a tale intensità con le note di apertura del sesto movimento del Quartetto in do diesis minore, op. 131, tra le sue opere più sublimi e spirituali.

Il rapporto tra spiritualità e musica trova di fatto nel diciottesimo secolo una nuova chiave interpretativa ancora più audace nell’ultimo movimento mistico ebraico, il chassidismo, nato intorno al 1750. In esso si porta infatti all’idealizzazione della musica come riflesso di un’innovazione nella cultura ebraica stessa, in contrasto con l’atteggiamento generale dell’establishment rabbinico ashkenazita. I leader spirituali chassidici da quel momento decisero di dedicare una crescente attenzione alla musica e alla danza nei loro scritti. Il Chassidismo arrivò ad esempio a creare una propria caratteristica melodica vocale sena parole, il Nigun. Il rabbino Schneur Zalman, autore del celebre Tanya, disse che “se le parole sono la penna del cuore, il canto è la penna dell’anima” che, scrivendo nella direzione opposta a quella del cuore, innalzare l’anima verso l’assorbimento nella Luce infinita. Per questa ragione in generale il Nigum non ricerca l’uso delle parole. Tali Nigunim sono spesso impiegati come estensione liturgica, fungendo da preludio o chiusura alle preghiere tradizionali. L’innesto tra canto e preghiera, così radicata nel chassidismo, non rappresenta altro che la continuazione delle idee dei mistici medievali, come affermava Y’hudah il Pio, “Chi non è in grado di disporre bene delle sue parole, dovrebbe esprimere la sua supplica, lode o penitenza per mezzo di melodie”.

Ci sono tre classi principali di nigunim. La prima classe è rappresentata dal canto solista del rabbino, che può essere teso a rivelare i misteri profondi e indicibili della kabbalah, cercando di raggiungere le sfere superiori con il fervore della sua supplica. La seconda classe di melodie serve per la comunione dell’anima individuale con il suo Creatore. La terza più comune è identificata nel canto della congregazione ascoltato alle adunanze chassidiche. Le leggende raccontano come tali nigunim cambiarono e migliorarono il carattere dei partecipanti, la katharsis di Platone.
Al Chassid viene infatti insegnato che dovrebbe cantare “non per influenzare gli altri, ma per influenzare se stesso”. Così le melodie di questo microcosmo non dovrebbero essere mirate a qualsiasi pubblico, non lottare per la bellezza esteriore e non essere misurate con standard puramente artistici: solo attraverso la partecipazione si può realizzare il loro potere commovente ed esaltante.
Il ruolo autonomo della melodia chassidica venne poi influenzato da due aspetti innovativi: dalla capacità di aprirsi a sonorità non tradizionali ebraiche e dalla mancanza di differenziazione tra musica religiosa e profana. È così che diversi repertori estranei al corpo originale finirono per essere assorbiti nella musica chassidica, dando vita ad un ricco repertorio di melodie da cantare in preghiera, al tish del Rebbe e in ogni possibile occasione: durante i pasti dello Shabbat nelle case chassidiche, alle feste nuziali e in varie occasioni sociali.

Questo ruolo della musica, che non è altro che una delle forme di manifestazione mistica della pervasività spirituale nel quotidiano, è sopravvissuto nei secoli ed è arrivato a prendere contatto ed assorbire anche le strutture melodiche più moderne. Il processo è stato graduale, con contaminazioni progressive che hanno risentito di influenze jazz prima e poi funk, fino alle sperimentazioni con il reggae, hip hop e rock e infine addirittura punk/hardcore.
Una tappa essenziale nel passaggio al contatto con la modernità è stata rappresentata dalla musica di Shlomo Carlebach, tra i rabbini più “unorthodox” degli ortodossi. Sebbene le sue composizioni, nate nei suoi viaggi da storyteller negli Stati Uniti insieme alla sua chitarra nel tentativo di raggiungere ebrei di ogni convinzione, non nascono originariamente come melodie da culto, molte di esse vennero inserite regolarmente nelle funzioni nel tempio. Una simile condivisione tra profano e sacro è avvenuta con uno dei suoi primi successi, “Esa Einai”, inclusa come nell’inno della gloria di Shabbat (Anim Zemirot). Ma è proprio questa fusion che nei primi anni 2000 ispira artisti come la star del beat boxing reggae Matisyahu, all’anagrafe Matthew Miller, o il hasidic rapper Nosson Zand, reduce dal film Song of David 2007, dove interpreta la paradigmatica figura di uno studente di Yeshiva ortodosso ossessionato dal rap. Due artisti legati, almeno nella fase iniziale al movimento Chabad, che emergono nel panorama statunitense con una propensione ad aprire la dimensione ebraica anche ai non ebrei e al cercare contaminazioni sonore innovative in grado di attrarre giovane ebrei e non solo. I brani di Matisyahu come “King without a crown” , “One day”, “Jerusalem”, diventano hit single di successo, promuovendo una visione socialmente positiva e accessibile del mondo ortodosso. Il Live at Stubb’s vol. II si apre addirittura con un bambino che intona lo Shemà, seguito da ritmiche reggae. Matisyahu, al di là della sua seconda fase di vita musicale, e forse umana, ben più lontana dalla realtà ultra ortodossa, resta un autore che tutt’oggi ricerca un connubio tra spiritualità ebraica e dialogo con la società

I primi due decenni del 2000 riportano la nascita di generi oggi identificati come Hasidic Hip Hop, Hasidic Rock-funky e simili categorizzazioni. Pur calato in una società contemporanea alla costante ricerca di etichette e categorizzazioni, occorre comunque prendere atto che si tratta di un fenomeno che, nella sua evoluzione, è arrivato a sfumare i confini tra spiritualità ed entertainment. In questo alveo si colloca ad esempio la band 8th Day, dei fratelli Shmuel e Bentzion Marcus, nipoti del celebre cantante Avraham Fried e con un fratello shliach Chabad. Sono partiti nei primi anni 2000 con brani dal taglio rock-funky e un’ottima chitarra, arricchita da sonorità newyorkesi di elevata qualità, sono passati ad una seconda fase ben più pop che ha portato però a brani di grande successo come “Yallili”, “It’s Shabbos now”, “Moses in me” e la splendida “My shtetl calling”. Nei loro brani, attraverso ben 9 studio album dal 2005 al 2021, si parla di Chassidismo, di cultura Yiddish, ma anche di attenzione a temi sociali contemporanei, sempre in un ambito di ricerca di contatto con il divino, dando forma ad una visione eclettica al contempo sobria dell’ortodossia ebraica.

E in questo percorso non mancano le manifestazioni più estreme, come i Moshiach Oi!, il cui sound è una mixitè tra sonorità tradizionali hardcore-punk e testi che non fanno altro che promuovere valori e concetti fedeli all’ebraismo. I brani ideati dalla passione per il punk del leader Yishai Romanoff trattano i temi come lo Shabbat, l’idolatria, l’era Messianica, nonché ispirati a Rabbi Nachman di Breslov, con una sperimentazione sonora che intende andare oltre all’apparente incoerenza tra la tracce ruvide hardcore ed elevazione spirituale.
Resta solo da chiedersi se anche oggi, al di là degli stilemi giovanili e dell’orientamento del mercato musicale attuale, queste siano da considerarsi melodie sostituibili alle suppliche divine secondo le parole di Y’hudah il Pio: mercato e spiritualità possano avere un punto di incontro reale?

References
Rabbi Saks J. Music, Language of the Soul 

Institut Europèen des musiques jiuves

Hanoch A. The Hasidic Nigun. Ethos and Melos of a Folk Liturgy.Journal of the International Folk Music Council, Vol. 16 (1964), Cambridge University Press pp. 60-63 (4 pages)

Freeman T. Music, Spirituality and Transformation.The centrality of song in Chabad

Roberto Battistini
collaboratore

Nato a Bologna nel 1972, ingegnere, si occupa presso l’Università di Bologna dei modelli scientifici di Healthy street e Senseable city, studia filosofia chassidica ed è esperto del codice ebraico noachide.


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