Il villaggio fondato da Bruno Hussar, tra sogno e realtà
Neve Shalom Wahat al Salam è un luogo di pace, di convivenza e di rispetto per l’altro. In quel luogo, fondato in Israele, convivono ebrei, cristiani e musulmani, che portano avanti insieme un villaggio rivolto al futuro, incentrato sull’educazione e il dialogo.
Questo «folle sogno» nasce dall’immaginazione di Bruno Hussar, che nel libro Quando la nube si alzava. La pace possibile scriveva così: «lasciate che mi presenti: sono un prete cattolico, sono ebreo. Cittadino israeliano, sono nato in Egitto. Porto quindi in me quattro identità: sono veramente cristiano e prete, veramente ebreo, veramente israeliano, e mi sento pure [..] assai vicino agli arabi».
Bruno, all’anagrafe Andrè, Hussar nasce nel 1911 da padre ebreo ungherese e da madre ebrea francese, entrambi ebrei non praticanti che non impartiscono al figlio un’educazione religiosa. Fino a che egli stesso non incontrerà Cristo e a ventiquattro anni chiederà il battesimo. Dieci anni dopo, nel 1945, entra nell’ordine dei domenicani e sarà poi ordinato sacerdote col nome di “Padre Bruno”.
Padre Bruno non è solo cristiano, ma è anche ebreo, israeliano e vicino agli arabi, la somma di «quattro identità» che esprimono quell’universo nel quale lottano tre religioni; una complessità da affrontare come ebreo seppur cristiano attraverso le leggi razziali e poi come cristiano seppur ebreo, dunque «traditore» per gli ebrei e disprezzato dai cristiani.
Insomma, una vita non semplice, che egli sceglie di declinare attraverso uno scopo, fare della pace una ricerca e una quotidianità da insegnare.
Così si rivolge alla Chiesa cattolica affinché abbandoni «l’insegnamento del disprezzo» verso gli ebrei. Verrà infatti invitato in qualità di esperto al Concilio Vaticano II (’64-‘65). In seguito alla Guerra dei Sei Giorni nel giugno del 1967, si è proprosto, poi, di infrangere l’impossibilità di una convivenza tra gli ebrei dello stato di Israele e gli arabi palestinesi.
Ecco, quindi, l’idea: partire da Dio e riunire i propri figli in un «ecumenismo dei rami» fino a fondare l’unità in un albero che affonda le «radici» nell’ebraismo. In particolar modo in quella Terra, Israele, condivisa nello spirito con Dio da tutti e tre i grandi monoteismi.
Per Hussar, per permettere all’uno di guardare il «volto» dell’altro, è vitale che vengano costruite le condizioni affinché ciò possa essere possibile. Una costruzione reale, però, fatta di cemento e sudore, in quella che definisce la «pace» come un’«arte» da realizzare e da insegnare. Così, nel 1972, nasce Neve Shalom Wahat al Salam, un’Oasi di pace il cui nome è tratto da Isaia 32,18 (Il mio popolo vivrà in un’oasi di pace), un angolo di mondo posto a pari distanza da Gerusalemme, Tel Aviv e Ramallah come luogo fulcrodelle memorie bibliche.
La prima famiglia arriverà nel 1977, mentre oggi ve ne sono una settantina (metà ebree e metà arabe) e altre sono in attesa che i lavori di altre 90 case vengano terminati per accogliere ulteriori ingressi. Il luogo è gestito in modo democratico e ogni anno viene eletto un segretario, una sorta di sindaco, per governarsi. È un luogo reale dove ogni componente religiosa ed etnica può scegliere di convivere nella collaborazione e nell’uguaglianza, educandosi a vicenda a gestire il conflitto in corso mediante la Scuola per la pace, fondata nel 1979. Una scuola che ad oggi ha insegnato e continua ad insegnare l’arte della pace a circa 35mila persone.
La scuola si compone di percorsi e progetti; tra questi ci sono i seminari di reciproco incontro e uni-nazionali sul conflitto per giovani palestinesi ed ebrei; oppure la formazione di adulti e laureati che vorrebbero continuare questo percorso di confronto entro i propri confini lavorativi o quotidiani e, da alcuni anni, tramite corsi presso alcune università israeliane: Tel Aviv University, Haifa University, Ruppin College e Ben Gurion University.
È quindi una scuola che educa «alla diversità e alla complessità, attraverso la conoscenza e la fiducia».
C’è anche la Scuola primaria del Villaggio, che dà istruzione a circa 300 bambini ebrei e arabi di cittadinanza israeliana provenienti da 22 località vicine.
Il sistema educativo comprende inoltre un asilo nido e una scuola materna e si basa sulla conoscenza parallela delle due culture (ebraica e arabo palestinese) in un solo contesto.
Le Scuole si rivolgono ai giovani perché – come dice Bruno Hussar – tra i 15 e i 18 anni «sono a un bivio. Sono alla ricerca della propria identità, tentano di chiarire i propri valori e si interessano di tematiche sociali e politiche. È un’età in cui lo sviluppo emotivo e cognitivo raggiunge un livello che consente una più ampia complessità di vedute, la capacità di generalizzare e il desiderio di osservare gli altri» ed è per questo che tra di loro si deve accrescere il confronto e non la paura del nemico, soprattutto attraverso il Centro giovanile Nadi.
Qualche anno più tardi – è il 1983 – viene inaugurata la cupola di Dumia-Sakinah (ossia Casa del silenzio), posta entro il Centro Spirituale Pluralistico di Comunità, che permette a chiunque, religioso o no, di dedicarsi alla comunione con l’altro attraverso il silenzio, l’unico linguaggio che non conosce parola e quindi divisione.
Un’ultima domanda può accompagnare verso la conclusione di questo – purtroppo breve – disegno di Neve Shalom, ovvero: perché vivere qui?
L’Oasi viene definita come esempio concreto di cooperazione e proprio perché dialoga con vite reali, essa è dinamica e si adatta per rispondere ai cambiamenti. Inoltre, non tutti vivono nel villaggio allo stesso modo, ma tutti accettano il modo di vivere da eguali e in pace con l’altro. Contribuiscono, ciascuno nelle proprie disponibilità di tempo, alla vita comune, perché fondamentale è la condivisione e l’accettazione dei suoi valori, un forte impatto politico sulla realtà.
Lo scopo, quindi, non è quello di avere un’unica idea né gli stessi valori, ma di condividerli nonostante le differenze.
«Siamo umani», difatti, come confermano alcuni dei membri, molti sono stati i conflitti, i contrasti e i litigi perché non è facile convivere nella differenza quando ognuno mantiene la propria identità, ma (noi, qui) stiamo vivendo il conflitto invece di combatterlo con le armi. Il luogo non è oggetto di discussione da parte solo di chi lo abita, non sono mancati atti vandalici contro i residenti (come l’incendio doloso della Scuola per la pace il 31 agosto 2020), oppure decisioni politiche che ne minerebbero la sopravvivenza.
Quindi, perché sceglierlo? Perché rende le persone responsabili della convivenza e del futuro dei propri figli e permette di collaborare con chi, in altri luoghi geografici, imbraccerebbe un’arma. L’Oasi è un esempio e, «anche se non è perfetto, […] è una buona cosa che esista».
Eppure è già per sé una grande cosa, tanto da essere riconosciuto e ricevere per alcuni progetti di educazione alla pace dei finanziamenti da parte dell’Unione Europea.
La forza di questo centro non è solo dovuta alla partecipazione dei suoi residenti, ma anche a quella dei volontari. In Italia è l’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al Salam a collaborare direttamente sul campo.
Il bisogno e l’esperienza dei volontari è necessaria non solo per arricchire la diversità fondante del villaggio, ma anche per offrire un arricchimento personale che potrà, con essa, influenzare la propria quotidianità e sensibilità fin oltre la comunità. Specialmente per la formazione di figure che, ingegneri civili, urbanisti o architetti, devono ridimensionare gli spazi di convivenza simbolica e civile, che seguono alcuni dei corsi della Scuola per la pace.
Questa Oasi ha certamente i propri limiti, eppure il processo di umanizzazione della percezione dell’altro come “nemico” resta un percorso fondamentale e sincero per superare ed elaborare paure, odio o rabbia, quei sentimenti che disumanizzano e separano. Che legittimano gli episodi drammatici dell’umanità, come la violenza, le guerre o i fratricidi.