Oman, Kuwait, Arabia Saudita: seconda e ultima parte della nostra piccola rassegna tematica
A pochi giorni dalla conferenza di Manama, indaghiamo l’evoluzione dei rapporti tra Israele, gli ebrei e le monarchie del Golfo. Ieri abbiamo parlato di Bahrein, Emirati e Qatar: completiamo ora il viaggio con Oman, Kuwait e Arabia Saudita.
Oman, la comunità scomparsa
La comunità ebraica omanita è scomparsa all’inizio dello scorso secolo. Le ragioni non sono chiare, ma non sembrano legate a ostilità dell’ambiente circostante. Le testimonianze dei viaggiatori che dal 950 e.v. arrivano a fine Ottocento parlano di una comunità ben integrata, coinvolta perlopiù nel mercato dell’argento e dei liquori e, differentemente da altri Paesi intorno, non obbligata a indossare segni di riconoscimento o a vivere in zone predeterminate. Dell’antica presenza ebraica nel Paese, testimoniano in particolare due siti archeologici: il cimitero della città portuale di Sohar – delle circa 200 tombe che una squadra di archeologi americani catalogò nel 1958, ne rimangono oggi una dozzina – e la tomba di Giobbe, alle pendici del Monte Qara, vicino alla città di Salalah. Altri due luoghi, in Turchia e Libano, si contendono la sepoltura del patriarca, ma il sito in Oman sembra corrispondere più fedelmente a diversi dettagli del racconto biblico, nonché a parte della letteratura rabbinica, secondo la quale Giobbe sarebbe realmente esistito.
Come gli altri Paesi della regione, oggi l’Oman non ha relazioni ufficiali con Israele, ma la situazione è in evoluzione. La prima sorpresa è arrivata a ottobre 2018 quando, riporta Hana Levi Julian su Jewish Press, Netanyahu è stato invitato a Muscat dal sultano Qabus bin Said, la prima visita di un politico israeliano in oltre vent’anni, dopo quella di Shimon Peres nel 1996.
Hanno inoltre fatto parlare le dichiarazioni del Ministro degli Esteri omanita Yusuf bin Alawi bin Abdullah al World Economic Forum – ospitato dalla Giordania presso le coste del Mar Morto – lo scorso aprile: “L’Occidente ha fornito a Israele sostegno politico, economico e militare, così che quest’ultimo ora ha tutto il potere…ma ciononostante, Israele teme per il suo futuro in quanto Paese non arabo circondato da quattrocento milioni di arabi. Ritengo che gli arabi debbano affrontare questa questione, tentare di mitigare le paure di Israele attraverso iniziative e affari tra noi e loro”. “Intende che la soluzione al conflitto è riconoscere Israele?”, lo ha incalzato un giornalista. Il Ministro è rimasto sul vago: “Non parlo di riconoscimento, ma vogliamo che [gli israeliani] capiscano che non ci sono minacce per il loro futuro”.
Dal Kuwait a Israele: la migrazione di una comunità e la strana idea che venne da Baghdad
Dei rapporti attuali tra Israele e Kuwait non si sa molto, se non che restano tesi perché quest’ultimo si è dimostrato più restio all’apertura rispetto ad altri Stati intorno (che iniziano, ad esempio, ad ammettere sul proprio territorio israeliani o turisti con visti israeliani). Ciononostante, nel mese di febbraio un gruppo di imprenditori kuwaitiani ha ricevuto un permesso speciale dal governo israeliano per visitare il Paese: un “tour culturale e turistico” del quale non si hanno dettagli, poiché si è voluto mantenere il riserbo. Non è escluso quindi che possano arrivare nuove sorprese.
Secondo un articolo del giornalista kuwaitiano Nasser Bader al-Eidan, pubblicato nel 2014 sul quotidiano Al-Rai e riportato dal Jerusalem Post, la presenza ebraica nell’era moderna inizia nel XVIII secolo: gli ebrei arrivano dall’Iraq, dove la dominazione ottomana ha imposto loro il pagamento di tasse speciali, alla ricerca di condizioni di vita e lavoro più favorevoli. Tra le ultime famiglie che si affermano prima del grande esodo, abbiamo gli Yehezkel, che durante i 35 anni del regno di Sheikh Ahmad al-Jaber (1921-1950) gestiscono la compagnia che fornisce elettricità al Paese. L’ultimo ebreo del Kuwait, Anwar Cohen, emigra in Israele nel 1953.
Il Kuwait si svuota così di tutti i suoi ebrei, ma le cose avrebbero potuto andare completamente nell’altra direzione: alcuni documenti conservati nell’Archivio Nazionale del Regno Unito rivelano che nel 1951 il governo iracheno prese in considerazione l’idea di trasferire in Kuwait cinquantamila ebrei e ne discusse con l’ambasciata britannica. La storia è ripercorsa da Lyn Julius – autrice del libro Uprooted: How 3000 years of Jewish Civilisation in the Arab world vanished overnight – su Jewish News.
Nel 1950 infatti, una legge aveva dato agli ebrei un anno di tempo per emigrare legalmente dietro rinuncia alla nazionalità irachena: dopo il pogrom (Farhud) del 1941 e altre violenze successive, l’Iraq voleva letteralmente disfarsi dei suoi ebrei, il più velocemente possibile. Ma era tutto un pantano: la neonata Israele non aveva le forze per assorbire l’ondata migratoria tutta in una volta e aveva posto una quota mensile in cui gli arrivi da Polonia e Romania avevano la precedenza; i profughi finivano a Cipro e ci restavano per tempi indefiniti, poiché l’Iraq non permetteva l’atterraggio ai voli israeliani. Ci fu un momento in cui l’Iraq considerò perfino di far passare i suoi (ex) ebrei attraverso la Giordania e di farli scortare da una forza giordano-irachena fino al confine con Israele. I giordani fecero notare che i profughi palestinesi, freschissimi di arrivo, non ne sarebbero stati entusiasti, e l’idea morì lì. Fu in questo contesto che venne avanzata l’idea di utilizzare il confinante e più tranquillo Kuwait letteralmente come un parcheggio: alla fine, fu il bombardamento nel gennaio 1951 della sinagoga Massouda Shemtob di Baghdad, luogo in cui tra l’altro venivano gestite le pratiche per l’emigrazione, a spingere Israele a intensificare i suoi sforzi: alla fine dell’anno, l’operazione di trasferimento degli ebrei iracheni nello Stato ebraico poteva dirsi completata.
L’incredibile storia di Mark Halawa
Menzione a parte, nel racconto dei rapporti tra ebraismo e Kuwait, merita la storia di Mark Halawa (per chi desidera, raccontata da lui stesso in questo video): Mark nasce e cresce in Kuwait da una famiglia che si definisce “musulmana laica, di origine palestinese”. La nonna materna è un’ebrea di Gerusalemme che si è convertita all’Islam per sposare il nonno, un ufficiale giordano. Mark conosce vagamente questa storia ma non gli dà troppa importanza, fino a che anni dopo non si trasferisce in Canada e scopre il concetto di matrilinearità dell’ebraismo: a parlargliene per la prima volta è un rabbino della comunità locale Habad, professore di filosofia in pensione, al quale Mark si era avvicinato con l’idea di avviare un qualche impacciato dialogo interreligioso. “Mi scusi, lei un ebreo?”, racconta Mark di aver chiesto all’anziano signore con barba lunga e kippah. “No, è che mi piace vestirmi così”, era stata la risposta, a proposito della quale Mark commenta: “Sugli ebrei avevo sentito di tutto e di più, ma nessuno mi aveva mai detto che fossero simpatici”. Seguirà un periodo di ricerca e poi di studio in yeshiva a Gerusalemme, fino all’intraprendimento del percorso formale di conversione su richiesta del tribunale rabbinico, in quanto Mark non è in grado di fornire documentazione scritta riguardo l’ebraicità del suo lato materno. Oggi, Mark vive a Gerusalemme, con il nome del personaggio biblico che catturò la sua immaginazione quando ne ascoltò la storia la prima volta che di Shabbat venne invitato a un pranzo: Mordechai.
Insegnare l’ebraico in Arabia Saudita
Lo scorso febbraio, leggiamo su Middle East Monitor, l’ex capo dell’intelligence saudita Turki al-Faisal ha accettato di comparire per un paio di minuti in una trasmissione israeliana, nel corso dei quali ha svelato al mondo l’acqua calda: sì, con Israele non abbiamo relazioni diplomatiche, ma cosa credete, ci parliamo da almeno 25 anni.
Storicamente, i rapporti del regno saudita con Israele e l’ebraismo sono sempre state contraddistinte da ostilità: già un articolo del 1957, disponibile nell’archivio di JTA, svelava che l’Arabian American Oil Company era finita nel mirino per discriminazione sul lavoro. La ragione? Escludere a priori gli ebrei dalle posizioni che prevedevano trasferimenti, anche temporanei, in Arabia Saudita. E forse qualcuno ricorda l’esilarante storia dell’avvoltoio con il microchip dell’Università di Tel Aviv che ebbe la pensata di spingersi un po’ troppo in là durante le sue perlustrazioni e venne arrestato dalle autorità saudite sotto accusa di essere una spia del Mossad. (Non se ne è più saputo nulla, ma vogliamo sperare che sia stato rilasciato!).
Sui rapporti tra ebraismo e Arabia Saudita, la storia più interessante è firmata da Elhanan Miller per Tablet Magazine: una lunga intervista a Mohammad Alghbban, professore alla King Saud University di Riyadh e tra i pochissimi in tutto il regno a conoscere e insegnare l’ebraico. Una passione nata per caso, dopo l’incontro con un professore egiziano che insegnava ebraico antico: “Ci sedemmo e gli dissi le parole che già conoscevo. Da ragazzo andavo in vacanza a Duba [località sul Mar Rosso], da lì riuscivo a vedere Eilat e si prendeva la radio israeliana”.
Ma a Riyadh non si va oltre il corso base: per approfondire lo studio Alghbann deve trasferirsi negli Stati Uniti, all’Indiana University di Bloomington. Unico arabo e musulmano “in mezzo a israeliani ed ebrei americani, nonché l’unico a non sapere praticamente l’inglese. Ma i corsi di ebraico andavano bene. Il peggio erano i corsi di linguistica generale, in cui persone che non conoscevano la situazione mi chiedevano cosa ci facessi lì, se vuoi studiare l’ebraico non puoi andare in Israele che sta a due ore di guida da casa tua?”.
Oggi la situazione in Arabia Saudita è leggermente migliorata, dice Alghbann: gli studenti sono pochi perché l’ebraico è vista come lingua poco spendibile sul lavoro, ma la qualità dei corsi alla King Saud – l’unica università a offrire un percorso quadriennale di studio dell’ebraico in tutta l’area del Golfo – è relativamente buona. Alghbann riassume la situazione con queste parole: “Un decennio fa, l’ebraico era considerata la lingua del nemico. Ora è la lingua dell’altro”.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.