Cosa succederebbe se la Shoah venisse trattata come una fake news? Chiedetelo a David, il protagonista di questa storia, che ha come mentori immaginari nientemeno che Roth e Rabin
Una storia di quotidiana distopia che riafferma la verità storica attraverso la fantascienza. Anzi, attraverso l’ironia. Quasi che quell’arci-noto umorismo ebraico avesse subìto l’ultimo aggiornamento per trasformarsi nella versione 2.0 di se stesso. Con un tocco quasi punk, però, nel colpire tutte le istituzioni fino ad oggi ritenute inviolabili. Come la memoria. Come la Shoah.
Poi tutto si ricompone in una geniale idea fantascientifica che rimette, almeno momentaneamente, le cose al loro posto. Sì perché la trama di questo lungo romanzo ha al centro la creazione di una falsa testimonianza: l’intervista, creata a tavolino con tanto di sceneggiatura, di un finto testimone della Shoah… Una fake news colossale, che mette in crisi tutto il sistema.
Siamo in Israele, a realizzare il falso documento video è David, un ragazzo appena scaricato insieme ai suoi colleghi da Yad Vashem perché la morte dell’ultimo testimone in Israele rende nullo il loro contratto come intervistatori-cineoperatori del museo. David mette in scena un falso perfetto, così credibile che la più importante istituzione della memoria dell’Olocausto lo accoglie con entusiasmo e lo promuove con una grande conferenza stampa. Ne consegue una serie infinita di fatti drammatici, incluso il discredito totale di Yad Vashem (che verrà poi chiuso), il dilagare del negazionismo, la perdità di identità di Israele stesso, fino alla rivincita della verità, che verrà ristabilita grazie alla storia di una lucertola mostruosa, degna delle migliori visioni della fantascienza. La scrittura, sebbene un po’ immatura, è avvincente: intrappola il lettore nelle vicende ed è impossibile staccarsi dal libro prima di averlo terminato. Forse anche perché fotografa un presente estremamente attuale, davanti al quale è impossibile non venire coinvolti… Ne abbiamo parlato con l’autore, il regista Alberto Caviglia.
Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Nasce da diverse suggestioni , dall’ansia che percepisco relativa alla scomparsa dei testimoni, dall’incremento dei movimenti negazionisti e dal dilagare delle fake news. In più, conosco una persona che lavora a Yad Vashem e fa anche le interviste ai sopravvissuti. Un punto di vista interno mi sembrava interessante, calando la storia dentro Yad Vashem. Solo in quel caso la creazione di un falso storico di quella portata avrebbe potuto provocare un’onda tale da negare persino la Shoah. Questo conto alla rovescia rispetto alla morte dei testimoni li ha resi ancora più importanti e in un’epoca in cui tutto ciò di cui non siamo testimoni oculari viene messo in discussione, il loro racconto è l’unico antidoto contro il negazionismo. Naturalmente io ho esasperato tutto questo al modo della satira che esaspera i fatti con ironia per stimolare la riflessione.
Una specie di umorismo ebraico 2.0… Ma c’è anche un altro elemento che mi è sembrato importante, il desiderio di andare contro le liturgie e una certa “monumentalizzazione” della Shoah, formule narrative forse oggi poco efficaci.
Volevo offrire un altro modo di parlare della memoria. Questo romanzo non vuole sostituirsi a niente, è solo un punto di vista ulteriore che in effetti racconta anche l’insofferenza verso le liturgie (della giornata della memoria, per esempio). Quello che cerco di fare è cercare forme nuove per continuare a parlare di Shoah e di antisemitismo, continuare a informare, evitare che la nostra storia recente appartenga a un passato remoto che non ci riguarda più. Allora Olocaustico è una chiave possibile per farlo, con tutti i rischi che questo comporta.
Certo, va a colpire il cuore di Israele…
Yad Vashem è un faro e non è un caso che a compiere il putiferio sia un ebreo distante dalla memoria. David è forse anche la metafora di quello che può succedere a prendere sottogamba la storia del proprio popolo. Se sei ebreo, sei stato bombardato fin da piccolo con le storie sulla Shoah che è parte fondante delle tua identità.
Ecco, l’identità. Come definirebbe l’identità ebraica? Spesso siamo abituati a farlo per contrapposizione. Alla Shoah, all’antisemitismo…
Credo sia profondamente sbagliato il connubio ebraismo/Shoah, come credo sia un grave errore associare antisemitismo e Shoah. Da ebreo ti ci confronti, naturalmente, ma c’è anche bisogno di trovare nuove definizioni.
Nel romanzo c’è una figura un po’ inquietante, Mordechai. È il falso testimone, è un personaggio che non si oppone mai a niente e che diventa però amico dei ragazzi che, prima di tutto, lo salvano.
Cercavo una figura remissiva, abitata da altre esigenze rispetto a quelle di David e i suoi amici. È un barbone e prima di tutto è preoccupato di poter mangiare e avere un tetto sopra la testa. Così accetta tutto, in cambio di queste due certezze. Taciturno, si scopre poi che la sua vicenda personale non è così lontana da quella che ha dovuto impersonare, ma se ne accorgeranno gli altri, lui ne ha perso la memoria. Però diventa profondamente aico dei ragazzi. Olocaustico è anche una storia di amicizia. Racconta di un gruppo di amici uniti in una grande impresa.
Il deus ex machina è una lucertola, o meglio, un rettile mostruoso, che richiama alla mente tanti film di fantascienza. Perché ha scelto questa figura?
Ho fatto un po’ di ricerche sulle leggende che vanno più di moda e ho scelto un rettile. Mi piaceva anche l’idea di mischiare il lavoro retribuito di David a Yad Vashem e fondato sulla ricostruzione storica rigorosa con la sceneggiatura del film che sognava di realizzare, completamente fantastico. Non solo. La lucertola diventa addirittura oggetto di culto, divinità da adorare per una piccola setta di accoliti.
E poi ci sono Philip Roth e Yitzhak Rabin, la strana coppia del romanzo. Chi sono?
Roth è il cattivo maestro, il lato malefico della coscienza di David mentre Rabin è il lato più coscienzioso, anche se così disilluso da dirsi pentito di aver speso la propria vita per la pace: a guardare quello che sta succedendo, forse non ne valeva la pena.
Questo romanzo antistorico è in realtà profondamente storico, a volte cronicistico quasi. Come ha lavorato su questa parte?
Ho usato i fatti reali che accadevano mentre scrivevo per riportarli ma anche per esasperarli e creare un’escalation negativa fino alla chiusura del Museo ebraico di Berlino e di Yad Vashem poi. Sulla storia passata invece mi sono attenuto ai fatti, seppur con qualche licenza.
Che ruolo hanno secondo lei i musei ebraici oggi?
Sono dei baluardi. Ed è importante osservare come il loro ruolo sociale e politico cambi negli anni. Yad Vashem evolve insieme alla memoria, tanto che all’inizio degli anni 2000 è stato completamente rifatto, proprio per rispondere all’esigenza di cambiare il modo di fare memoria. E ora, con la fine dei testimoni, si sta preparando un nuovo cambiamento.
Cosa pensa del rapporto tra diaspora e Israele?
Non credo che essere ebreo implichi necessariamente una fratellanza con lo stato d’Israele. Credo invece nel valore della diaspora, con la sua storia millenaria.