Forse non tutti sanno che il panino palermitano con le interiora è un’invenzione ebraica, riveduta e corretta dai cristiani, con reminiscenze musulmane di sapidità
Affermare che un panino a base di interiora fritte nello strutto e arricchite da formaggio abbia origini ebraiche potrebbe suonare un po’ azzardato. Diciamo pure un’eresia. Eppure il pani câ meusa, il pane con la milza, uno dei pilastri dello street food siciliano, nato a Palermo e ormai conosciuto e apprezzato perfino negli States, sarebbe nato proprio grazie agli ebrei.
Certo, in principio la pietanza non era certo preparata come descritto sopra, risultato di una serie di sovrapposizioni a loro volta piuttosto interessanti con la cultura locale e quella araba, ma all’origine di tutto ci sarebbe comunque stata la comunità ebraica locale. In particolare, i suoi macellai. Piuttosto attivia nell’economia palermitana, questa categoria di lavoratori non poteva per legge ricavare denaro dalla vendita della carne. Veniva così ripagata con le parti di scarto degli animali, le cosiddette frattaglie. A questo riguardo, vale la pena ricordare che mentre il termine italiano che indica le interiora degli animali macellati deriva dal termine latino fractus, cioè spezzato, quello inglese offal è una traduzione del XIV secolo dal danese medio afval. Trascrivibile come off fall, si riferiva alle parti dell’animale che cadevano (fall off, appunto) dal tavolo del macellaio.
Tornando ai macellai ebrei, questi si ritrovavano con una certa quantità di polmoni, milze, intestini, cuori e ghiandole varie da recuperare e, in qualche modo, da fare fruttare. La situazione non era troppo diversa da quella in cui si trovavano in genere tutti gli appartenenti al popolo. Visto che le classi agiate da sempre snobbavano le parti, appunto, di scarto, con la sola eccezione del fegato (pregiato e quindi conservato gelosamente), servi e dipendenti si ritrovavano omaggiati dai loro signori di tutti gli organi considerati meno nobili. Spesso tenuti ai margini della società anche nei casi in cui erano relativamente tollerati, gli ebrei finivano così con l’essere tra i destinatari di questo tipo di “doni”, mostrando una capacità di inventiva che ha consentito loro di trasformarli in vere delizie gastronomiche.
Concentrandosi sulle vicende del pani câ meusa palermitano, le teorie al riguardo differiscono leggermente l’una dall’altra. Quella più in voga vorrebbe che gli ebrei, non potendo consumare le interiora per motivi religiosi, avessero trovato il modo per trarne profitto realizzando i panini da vendere ai cristiani. I più arditi suppongono che pure la cottura nel lardo fosse opera loro così come l’abbinamento con il formaggio. Tutti procedimenti ovviamente non kasher, ma visto che il cibo era destinato ai gentili… Le cose andarono verosimilmente in modo un po’ diverso.
Innanzi tutto va ricordato che le interiora non sono tout court proibite dalla kasherut, che nello specifico vieta il chelev, ossia il grasso dell’animale inteso come una parte fibrosa e rimovibile che ricopre alcune parti degli organi. A dimostrazione di quanto animelle, intestini, cuori, milze, polmoni e cervelli fossero invece tranquillamente consumati anche presso gli osservanti vi è l’immensa galleria di piatti della tradizione ebraica. Come ricorda il rabbino e storico del cibo Gill Marks nella sua imprescindibile Encyclopedia of Jewish Food, scongiurato il pericolo che le frattaglie contenessero il grasso proibito, queste rappresentavano invece un ingrediente base per gli yemeniti, maestri nell’utilizzare ogni parte dell’animale. I Sefarditi sono a loro volta indicati dall’autore come grandi amanti del cervello, mentre nel Maghreb sarebbero andate per la maggiore sia la lingua sia la trippa dell’agnello. La lingua sarebbe stata piuttosto amata anche presso gli Ashkenaziti, che apprezzavano un po’ tutte le interiora, in particolare bovine, con una predilezione per le animelle e il fegato. Non troppo diversamente andavano le cose presso i Mizrachim, interessati però principalmente alle frattaglie ovine.
Anche un’altra importante storica del cibo ebraico come Claudia Roden dedica un intero capitolo del suo The Book of Jewish Food alle interiora. E ribadisce la loro diffusione presso gli ebrei di tutta la diaspora, ricordando come i piatti tradizionali preparati con questi ingredienti si siano conservati soprattutto nelle cucine del Nord Africa. La studiosa cita tra gli altri l’aakode tunisino, stufato a base di tutte le frattaglie possibili e immaginabili insaporite con harissa, cumino, paprica e pomodoro, l’algerino faad d’agneu, a base di cuore, polmoni, fegato, esofago e viscere d’agnello cotti con aglio, pomodoro, cipolle e prezzemolo, e la tagine al guezar, stufato a base di fegato, milza, cuore, polmoni, testa, piedi e salsiccia di intestino di manzo ripieno di fegato cotto con una salsa gialla (aglio e curcuma) o rossa (cumino e paprica).
Passando all’Italia, la stessa cucina giudaico-romanesca è un ottimo esempio di quanto le interiora siano parte integrante della tradizione gastronomica ebraica. Secondo alcuni, sarebbero stati anzi proprio gli ebrei a introdurre le frattaglie nella cucina romana. Oltre ai termini già analizzati, compare da noi un’altra espressione per indicare queste parti di scarto ed è quella, esemplare, di “quinto quarto”, cioè di quanto non rientra nei quattro tagli tradizionali. Spesso prima arrostiti sulla graticola per eliminare ogni residuo di sangue (quello sì proibito dalla kasherut), cervello, animelle, trippa, milza e fegato dei bovini macellati davano vita a ricette impagabili e ora in parte dimenticate come le animelle con i ceci, la trippa con l’agliata, la lingua salmistrata, la milza in padella con la salvia e agresto o le creste di pollo con aceto e cannella. Oggi di questo goloso corpus è sopravvissuta la passione per la trippa e per un piatto tipico romano come la pajata. Consumata così com’è o abbinata alla pasta, questa particolare preparazione viene abitualmente servita anche nei ristoranti ebraici della Capitale pur essendo stata al centro di accesi dibattiti sul suo essere o no kosher. Semplificando, si tratta di un piatto ottenuto dall’intestino del vitello da latte che, lavato ma non privato del chilo, il liquido lattiginoso raccolto nei suoi vasi, viene poi cotto fino a produrre una salsa saporita che va ad amalgamarsi a quella di pomodoro. Il dubbio posto all’attenzione dei rabbini era se la presenza del latte nelle interiora andasse contro il precetto di non mescolare la carne con i latticini. La questione è stata brillantemente risolta con l’assoluzione della pietanza visto che dal punto di vista ebraico gli alimenti che sono stati ingeriti non sono più considerati uguali al loro stato originale. E quindi non creano il mix proibito.
Per tornare ai macellai palermitani, è probabile che ricavassero qualche soldo vendendo milza e polmoni ai gentili, ma è più facile che li proponessero in panini comunque più vicini alla tradizione ebraica, ossia bolliti, eventualmente grigliati e quindi spruzzati con sale e succo di limone piuttosto che cotti nel grasso di maiale e guarniti con ricotta e caciocavallo come si fa oggi. Queste aggiunte sarebbero piuttosto specchio della convivenza a tratti quasi pacifica (e quindi fertile) tra le tre religioni monoteiste, ben rappresentate in Sicilia ai tempi della dominazione araba tra il IX e l’XI secolo. Tra alti e bassi, cristiani ed ebrei erano considerati dai regnanti musulmani dhimmi, ossia sudditi protetti e tollerati nella professione della loro fede purché pagassero al governo pesanti tributi.
La rosolatura nella “sugna” che ancora oggi rende così appetibile il ripieno del panino ai clienti dei carretti così come a quelli dei locali tipici non poteva che essere frutto dell’unica delle tre fedi che consentisse il consumo del maiale. L’abbinata con i formaggi sarebbe nata invece dall’incontro con la passione locale, forse di derivazione araba, per un panino a base di ricotta e caciocavallo. Di memoria araba sono anche i semi di sesamo che tempestano la vastedda, la soffice pagnotta che accoglie carne e formaggi, mentre l’abitudine di friggere le interiora nel grasso animale deriverebbe non solo dalle abitudini culinarie cristiane, ma anche dall’esigenza di suddividere la preparazione del panino in due fasi.
Visto che lo smercio avveniva allora come ora perlopiù per la via, si doveva trovare un modo per riscaldare all’ultimo e rendere insieme più morbida la carne previamente bollita. E quale modo migliore, precetti a parte, che friggerla nel grasso? Tocco finale, in quella versione del panino detto maritatu (maritato) e contrapposto allo schettu (singolo, con una sola spruzzata di succo di limone) era l’aggiunta del formaggio, in un matrimonio interreligioso in cui la sposa è rappresentata dal candido velo di caciocavallo grattugiato.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.