In due volumi lo storico Francesco Filippi analizza le ragioni della rilettura mitografica, assolutoria, e a tratti paradossale, del regime e di Mussolini
In due libri complementari, usciti l’uno a poca distanza dall’altro (Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo e Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto, Bollati Boringhieri), con un ottimo riscontro di pubblico, lo storico Francesco Filippi affronta il tema della «lunga durata» del calco fascista, ossia della sua irrisolta memoria, nella società italiana. La scelta di dare spazio ad essi anche su queste pagine nasce dalla volontà non solo di commentare due testi di indubbio interesse ma anche di capire per quale motivo, ad oltre settantacinque anni dall’auto-disintegrazione del regime mussoliniano prima (nell’estate del 1943) e poi dalla tragica estinzione della Repubblica sociale italiana (nella primavera di due anni dopo), sia comunque seguita un’ombra che è ben lontana dall’essersi risolta.
Il fascismo, infatti, rimane tra noi. Non come sistema politico e neanche esclusivamente come culto per gruppi di irriducibili apologeti, ridotti a pochi gruppi, bensì come parte delle strutture portanti di un pensiero di senso comune che, sia pure con andamenti carsici, si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi. Non a caso, infatti, a partire dagli anni Ottanta del secolo trascorso, con il progressivo declino della «Repubblica dei partiti», a fronte dei mutamenti della società italiana – in questi ultimi mesi accelerati poi dalle trasformazioni più recenti e radicali dovute alla pandemia – il progressivo indebolimento delle strutture istituzionali di garanzia ha maggiormente accreditato la plausibilità politica e l’accettabilità sociale di un ritorno al “pensare fascista” che ha molte sfaccettature.
Da subito, quindi, sulla scia di ciò che il medesimo autore afferma, è bene distinguere tra fascismo storico, come evento in sé cronologicamente definito (in quanto tale accertabile nella sua specificità e, per più aspetti, irripetibilità), e una serie di schemi mentali i quali, invece, tendono a riprodursi nel corso del tempo. Se il primo volume, che titola con una frase spesso ripetuta, quasi cantilenata, ovvero «Mussolini ha fatto anche cose buone», riprende alla radice il breviario dei luoghi comuni vigenti, smontandoli uno ad uno e sostituendo ad essi i riscontri storici nella loro oggettività, il secondo testo parte dalla conclusione del fascismo per cercare cosa di esso resti ad oggi, attraverso un lungo excursus dal 1945 fino ai giorni nostri. In quest’ultimo aspetto, il riferimento ripetuto è all’incompiutezza della democrazia italiana, in molti dei suoi aspetti. Soprattutto laddove si finge di non sapere cogliere che la radice del fascismo è invece quella di essere essenzialmente un sistema di potere criminale.
Illustrare i diversi passaggi nei quali i due lavori dell’autore si articolano, implica fare sia un bilancio storiografico che una riflessione politica. Nel primo caso, ciò che da subito si coglie è quanto il fascismo sia un elemento della storia nazionale a lungo studiato. Tanto più per questa ragione, vale quindi la pena il chiedersi il perché dei motivi per i quali – a fronte di una massa di cognizioni critiche disponibili oramai a tutti i cittadini – una non indifferente parte di essi propenda, non importa con quale e quanta incoscienza ed ignoranza, nel non fare i conti con questa lunghissima e tragica pagina della storia nazionale. Semmai crogiolandosi in una sua rilettura mitografica, assolutoria, a tratti paradossale. Sia detto per inciso, che è proprio fatto costitutivo dell’auto-rappresentazione dei fascismi medesimi il fornire di sé una serie di immagini profonde, ossia di schemi mentali introiettati collettivamente, attraverso i quali raccogliere il consenso delle società. Un consenso che, almeno in parte, persiste e sopravvive anche dopo il tramonto dei regimi che lo producono. Poiché traduce l’adesione politica in subordinazione compiacente, all’interno di un sistema di relazioni sociali di natura clientelare, ossia un circuito di dipendenze e di sudditanze desiderate, cercate e quindi volute. Comunque, una macchina della deresponsabilizzazione collettiva.
In questo, il fascismo italiano e quelli europei (lo scenario continentale va sempre preso in considerazione) sono stati un fondamentale veicolo di quel processo di «nazionalizzazione delle masse», del quale uno storico come George Mosse ha a lungo parlato. Per il tramite d’essi, infatti, le collettività nazionali sono state senz’altro introdotte sul proscenio collettivo, neutralizzandone tuttavia qualsiasi carica riformista se non rivoluzionaria. Il trapasso, che si consuma tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, da sistemi liberali, censitari, fondati sul notabilato borghese, a circuiti di rappresentanza molto più estesi, conosce nel modello fascista (basato invece sul consensualismo acritico, sul gregarismo, sul monopartitismo, sulla distruzione del pluralismo critico non solo in ordine alle diverse posizioni politiche ma anche su un piano culturale, soprattutto nel rapporto diretto e asimmetrico tra «capo» e «masse») un suo compimento rassicurante. Tale poiché nel fingere di produrre una «rivoluzione nazionale» in realtà si adopera affinché venga preservato un concentrato di interessi che gli preesistono e che, quand’esso esaurisce la sua funzione storica, lo liquidano impietosamente. Per tutelare se stessi e la propria continuità.
Beninteso, le letture del fenomeno fascista (come anche di quello neofascista, subentratogli tra la conclusione della guerra e l’immediato dopoguerra) non si piegano a schemi preordinati. Men che meno ad un’univocità di interpretazione che incaselli in un solo schema una complessità che, come tale, è invece una delle ragioni della sua persistenza, a prescindere dalla decadenza della sua egemonia diretta quando la forza delle armi altrui (come delle circostanze storiche) ne decreta la consunzione. Tra il gobettiano richiamo al fascismo come «autobiografia della nazione» (ovvero manifestazione appalesata del carattere più profondo, e come tale regressivo, di un Paese incompiuto non solo sul piano sociale ma anche civile e morale) e quello comunista del fascismo come forma di dominio diretto, ovverosia senza nessun abbellimento di facciata, delle forze produttive da parte degli elementi più «reazionari del capitale», evidentemente si articolano una pluralità di interpretazioni possibili. Le quali, per inciso, non sono alternative tra di loro e neanche necessariamente in contrasto.
Il fascismo è stato anche male morale diffuso, oltre che violenta anestetizzazione dei conflitti sociali. Ma non può essere letto come pura patologia di una società. In quanto ne è invece una forma di organizzazione delle relazioni sociali il cui nucleo fondante è, tra gli altri, il combinato disposto tra violenza coloniale e razzista (laddove le popolazioni diventano merce), esaltazione del cameratismo di trincea (nel quale i rapporti collettivi si basano sul principio della legittima sopraffazione da parte del più forte), concezione della società come di una caserma, nella quale organizzare ogni aspetto della vita quotidiana sulla base di uno scambio belluino ma convincente per molti: la cessione della libertà individuale, e con essa della responsabilità, di contro ad una qualche forma di protezione collettiva all’interno di una logica diffusa di branco.
Detto questo, quando si passa al secondo piano delle riflessioni che i volumi di Filippi alimentano, si entra nello specifico di un tentativo di risposta di merito, traducendo sul piano politico (quello che oggi, in fondo, è il più assente) il problema non solo di interpretare il fascismo ma soprattutto di dare una risposta ad esso. E qui si va verso il dato biografico dell’autore, che è espressione di una generazione che è nata negli anni Ottanta, si è iniziata a formare al tramonto della cosiddetta «Prima Repubblica» ed ha avviato le sue attività professionali in questi ultimi dieci o vent’anni. In un quadro che è completamente diverso da quello degli storici oggi ancora maggiormente stimati e studiati, per i quali invece furono cruciali gli anni di apprendistato culturale e politico compresi tra il 1960 e il 1980. La sfasatura non è solo cronologica ma anche logica. Ovvero, se la generazione precedente si era identificata con un lungo periodo di tempo dove l’interfacciarsi tra ricerca e militanza era spesso un aspetto di compiuta complementarietà, chi è arrivato successivamente si è dovuto confrontare con il declino delle passioni e della partecipazione pubblica. In qualche modo ne è figlio. Scontando, tra l’altro, le incertezze di ruolo e di funzione legate alla crisi delle agenzie educative, dalle scuole all’università, parte delle quali ricondotte ad un ruolo di trasmissione passiva oppure ad un perimetro di auto-preservazione corporativa. Con la grande concorrenza dell’infotainment, dove alla formazione si sostituisce l’informazione che è anche e soprattutto intrattenimento.
Il Web è un po’ il vero contenitore di queste dinamiche, tanto più dal momento che, sollecitando la percezione di un eterno presente come unico tempo storico dell’autenticità individuale, incentiva la convinzione che la storia sia essenzialmente un insieme di rappresentazioni intercambiabili, delle quali si sceglie la più plausibile, di volta in volta. Temi non da poco e per nulla collaterali, poiché ogni autore è il prodotto delle circostante culturali e dei tempi sociali nei quali si trova a vivere, confrontandosi con gli effetti che questi producono su un’intera collettività di cui è parte. Non a caso Francesco Filippi di professione fa il formatore, ossia colui che interviene su persone, perlopiù ancora in età giovane ma già educate alla conoscenza di aspetti della storia nazionale ed europea, per offrire ad esse ulteriori e maggiormente approfondite chiavi di lettura nel merito. Senz’altro sul passato per, tuttavia, operare concretamente nel presente. Anche questo aspetto sociale e culturale, che richiama la doppia cifra dell’autore e del suo pubblico, va quindi tenuto in debita considerazione per inquadrare il senso (e l’urgenza) di quelle riflessioni delle quali i due libri sono espressione. Poiché non denunciano solo la disarmante povertà dei pregiudizi filofascisti ma identificano soprattutto il terreno specifico sul quale essi trovano opportunità di riprodursi, amplificando la loro capacità di seduzione. Beninteso, non giovani menti prive di coscienza ma società tendenzialmente incoscienti, quindi spoliticizzate, all’interno delle quali per le generazioni meno anziane è molto più difficile orientarsi all’atto di costruirsi un solido profilo di consapevolezza. Ecco, quindi, come alla domanda sul «ma perché siamo ancora fascisti?», un primo tentativo di risposta, tralasciando i facili moralismi di sorta, rimandi alla necessità di capire quale sia la cifra di lungo periodo di una decadenza dalla partecipazione politica che fa rima con espropriazione della capacità decisionale e, in immediato riflesso, con un lungo processo di vero e proprio ritorno della subordinazione morale, civile ed in ultimo sociale.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Articolo molto interessante che aiuta a comprendere anche il successo dei partiti populisti che, senza necessariamente richiamarsi al fascismo ne riproducono le stesse dinamiche (uomo forte e popolo succube). Grazie!