Hebraica Nizozot/Scintille
Perché si canta la canzone “Chad gadià”, “Un capretto”, alla fine del Seder?

Quando una filastrocca racconta la filosofia della storia ebraica

Non tutti i testi delle haggadot shel Pesach concordano: alcuni pongono i piutim, gli inni finali, davvero alla fine, dopo che ci si è scambiati l’augurio: le-shanà ha-baà b-Yirushalayim, l’anno prossimo a Gerusalemme; ma altre edizioni a stampa li pongono subito prima (come il testo assai diffuso in Italia a cura di Alfredo Toaff). Per quasi tutti ormai il canto davvero conclusivo è l’Hatiqvà, l’inno nazionale dello Stato di Israele. Ma tradizionalmente il seder di Pesach si conclude con alcune canzoni di natura religioso-pedagogica, le cui melodie e parole sembrano cariche di affettuosi e indelebili ricordi familiari. Non essendo tecnicamente parte del seder, questi piutim sono a volte cantati non in ebraico o aramaico – come nell’originale – ma in lingua volgare, variando da comunità o comunità o addirittura da famiglia a famiglia (come le ricette del charoset). Il fatto che compaiano sin dall’inizio nelle versioni stampate attesta che la loro recitazione risale a un uso antico, sebbene i testi possano essere più recenti. E’ il caso probabilmente del popolare piut noto con il titolo di Chad gadià, “un capretto”, che per alcuni studiosi sarebbe stato diffuso in ambito ashkenazita, nel XV secolo, a imitazione di un canto popolare tedesco. Secondo gli storici (tra tutti va ricordato Josef Hayim Yerushalmi, che ha scritto una voluminosa storia delle haggadot pasquali), esso compare per la pima volta a Praga nel 1590.

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Di per sé il Chad gadià non è una preghiera o un collana (charizà) di citazioni e rimandi a eventi miracolosi operati da Dio nella storia, come i testi che lo precedono. E’ piuttosto una filastrocca in aramaico, facile da ripetere e memorizzare, che concatena una serie di azioni/reazioni (di animali, elementi ed esseri umani) e solo alla fine Qadosh Barukh Hu appare per mettere la parola ‘fine’ alla storia. Letteralmente il termine storia indica qui sia la storiella cantata sia la Storia con la ‘s’ maiuscola, gli accadimenti temporali del popolo di Israele in mezzo alle nazioni del mondo. In breve, si canta di un capretto comprato per due zuzim, che viene mangiato da un felino, che viene morso da un cane, che viene percosso da un bastone, che viene bruciato dal fuoco, che viene spento dall’acqua, che viene bevuta da un bue, che viene ucciso da un macellaio, che viene sua volta ucciso dall’angelo della morte, sul quale alla fine prevale Iddio bendetto che elimina l’angelo della morte. E’ evidente che si tratta di una storia simbolica, tesa a insegnare come vanno le cose al mondo: il più forte bracca e spesso ‘mangia’ il più debole. Questo è, appunto, l’ordine naturale delle cose, è la legge di natura; ma la storia non è retta solo dalla legge naturale e il messaggio del giudaismo – un messaggio che non è solo spirituale ma è diretto alla storia svelandone il suo significato profondo – consiste nel ricordare che esiste un Giudice (un Dayian) della storia e delle cose del mondo, e il suo è/sarà un giudizio (din) di giustizia.

Non è dunque solo una filastrocca per allietare i bambini presenti al seder (quelli che non si sono ancora addormentati) ma è una specie di riassunto eloquente per tutti: la morale del seder è che Dio governa il mondo con giustizia e che Pesach, la pasqua ebraica, è un paradigma universale di giustizia e di condanna dell’oppressione, fisica e morale. Pesach sprona a credere nella liberazione e nell’ideale di servire il Signore, perché l’idolatria è la matrice di ogni schiavitù. Non nega che la storia sia piena di oppressione (violenza e sofferenza, ingiustizie e miserie varie), ma nega che tale oppressione abbia l’ultima parola. L’ultima parola sta sopra la storia come suo giudizio e come atto di redenzione. Una redenzione che, ahinoi, non viene senza un prezzo: il conflitto con chi incarna l’ingiustizia e persino la di lui morte, nel caso nostro la fine degli egiziani inghiottiti dalle acque del mare.
Letta come allegoria della storia ebraica e decifrata, il piut parlerebbe allora di quel capretto che è il popolo ebraico, il cui ‘babbo’, ossia Iddio benedetto, compra/acquista/riscatta per mezzo di due zuzim, tradizionalmente interpretate come i shenè luchot ha-brith, le due tavole del Patto, la Torà. Ma il capretto cade subito preda di un felino carnivoro che simboleggia l’Assiria, prima potenza mondiale ad aggredire la terra di Israele nel VIII secolo a.e.v. Poi viene il cane che è Babilonia (che distrugge il primo tempio), che è colpito dal bastone dell’impero persiano; che è bruciato dal fuoco greco-ellenistico (e siamo ad Antioco IV Epifane); questo soccombe al diluvio dei romani (che distruggono tempio e città santa: Pompeo, Tito, Traiano, Adriano…); a sua volta i romani sono rimossi dall’avvento dell’islam (il bue), che viene ‘macellato’ dai crociati, i quali a loro volta vengono uccisi dall’impero turcofino a quando Iddio benedetto deciderà di chiudere il cerchio della storia facendo giustizia sulla ‘morte’, che è il marchio di ogni oppressore.

Anche nel Libro di Daniele (cap.7) abbiamo una visione apocalittica che, a suo modo, è una ‘filosofia ebraica della storia’: quattro grandi bestie che vengono spiegate a Daniele come il dominio di quattro grandi imperi (babilonese, medio-persiano, greco-macedone, seleucide) ma alla fine “il regno sarà dato ai santi dell’Atissimo”. Dunque Chad gadià è una sintetica ‘filosofia della storia ebraica’. Può dirsi anche una filastrocca messianica, sebbene il messia non vi sia mai evocato, che ruota attorno all’idea che il male non resterà impunito. E’ più di un’idea: è una fede e una teodicea, ispirate alla dottrina della remunerazione, fondamentale per la speanza di Israere nel corso del suo esilio storico. Pur essendo un’aggiunta tarda nel seder, ne rispecchia il senso liturgico e le aspettative soteriologiche.
Secondo il filosofo del romanticismo tedesco Johann Gottfried Herder le canzoni popolari sono una delle massime manifestazioni dell’anima di una nazione e hanno una valore rivelativo: non sono mere favole ma esprimono i valori più profondi radicati nell’ethos del popolo che le ha create e le canta. E tanto più semplici o primitive sono, tanto più hanno forza rivelativa. In quest’ottica, Chad gadià esprimerebbe la certezza che la storia umana è sempre sotto il controllo divino, anche se ciò si manifesta solo alla fine e non durante lo svolgersi degli eventi storici. Da Praga, poi, il Maharal sottolinea che le punizioni divine, secondo la concezione tradizionale ebraica, non sono sentenze di condanna ma vanno intese come strumenti di purificazione: ciò vale sia per le punizioni che colpiscono Israele, sia per i castighi che cadono sulle nazioni “perché ogni nazione ha il suo posto nel mondo”. Inoltre, se l’esodo dall’Egitto per Israele è irreversibile (è eterno, dice il Maharal, cioè non si torna più indietro e Dio non recusa la sua decisione di ‘redimere Israele’), non è invece scontata l’entrata nella ‘terra della santità’ e il viaggio può essere pieno di ostacoli, tentazioni, perdite. Se la liberazione viene dall’alto, la libertà va conquistata dal basso, con l’adesione alla Torà e agli obblighi che derivano dai valori di giustizia e misericordia, che sono i pilastri della vita ebraica in diaspora come in eretz Israel. I due zuzim dell’apologo cantato alla fine del seder di Pesach non hanno mai perso valore, sotto qualunque regno e a qualsiasi latitudine del mondo.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


1 Commento:

  1. Interessantissima questa spiegazione di questa anticafilastrocca che era uso cantare alla fine del seder nella mia famiglia in special modo da papà al grazie prof e stato prezioso


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