Cultura
Primo Levi e “I Promessi Sposi”

Analisi di un dialogo serrato tra i due scrittori

Nessuno tra i principali autori italiani del Novecento dialoga quanto Primo Levi con la letteratura del proprio paese. Nessuno come lui la utilizza altrettanto nelle proprie opere, da Se questo è un uomo ai Sommersi e i salvati piene di citazioni, situazioni ed esempi tratti soprattutto, ma non solo, dagli autori canonici studiati al liceo. In un panorama rigoglioso, i tre autori oggetto di riferimento costante per Levi sono Dante, Leopardi e Manzoni, nessuno dei quali singolarmente incluso nell’antologia personale La ricerca delle radici. Manzoni gravita in orbita leviana soprattutto per I promessi sposi, che però secondo il biografo Ian Thompson (Primo Levi. Una vita, Utet) sarebbero stati recuperati dopo un rifiuto giovanile tanto comprensibile quanto comune, dal momento che costituivano lettura obbligatoria a scuola. In ogni caso Levi, che diceva di essere più un rilettore di libri già conosciuti che un lettore di novità, per almeno un quarantennio medita e dialoga con il romanzo di Manzoni. Ne deriva un confronto serrato che non solo è fondamentale per capire Levi, ma anche per cogliere sfumature decisive dell’opera di Manzoni, da qualche mese disponibile anche nella splendida versione audiolibro a cura di Rai Radio 3.

È stato sottolineato, per esempio da Marco Belpoliti (Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda) come Manzoni sia per Levi l’autore di riferimento nell’ultima opera, I sommersi e i salvati. Se è vero che nel libro pubblicato un anno prima della morte Levi assume I promessi sposi come ipotesto, cioè sceglie Manzoni come autore guida, possiamo però censire cospicue tracce manzoniane fin da Se questo è un uomo e poi in tutte le opere successive, nessuna esclusa. Limitiamoci a qualche esempio. Nel capitolo più dantesco del libro più dantesco di Primo Levi, “Il Canto di Ulisse” di Se questo è un uomo, vediamo un’evocazione dei monti al calare del sole che rimanda inevitabilmente al celebre “Addio, monti” con cui Lucia saluta commossa il paese. Abbiamo poi confronti diretti nei quali Levi commenta personaggi o situazioni manzoniane. Per esempio nell’Altrui mestiere, il volume in cui raccoglie un buon numero di eterogenei interventi giornalistici, un capitolo intitolato “Il pugno di Renzo” si sofferma su una gestualità ritenuta innaturale. Abbiamo motivi topici, a partire da quello di Renzo e Lucia profughi che hanno dovuto abbandonare la propria casa e anelano a ritornarci un giorno, oppure quello dell’“esterminio” della peste. Abbiamo riprese lessicali, per esempio quando nelle prime pagine della Tregua il Lager abbandonato dai tedeschi viene descritto come un “gigantesco lazzaretto” su cui sorgono “baracche” e in cui si aggirano uomini vestiti di “cenci”. Oppure nel Sistema periodico, dove Levi fa riferimento alle “provvide leggi razziali” che costringono a maturare mostrando senza mezzi termini la natura liberticida e razzista del fascismo sulla scorta della “provida sventura” di Ermengarda nell’Adelchi. Abbiamo numerosi calchi e prestiti, per esempio l’augurio di padre Cristoforo ai due promessi di “ritornar sicuri a casa vostra” affiora nell’incipit della poesia che apre Se questo è un uomo: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case” (debitore al contempo, come ha mostrato Alberto Cavaglion, del dantesco “Voi che vivete” con cui Marco Lombardo nel Purgatorio si rivolge al poeta pellegrino). Oppure l’episodio in cui don Abbondio nell’ultimo capitolo del romanzo esclama rivolgendosi a Renzo e Lucia “fortunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete ancora un pezzo da parlare de’ guai passati”, di cui l’esergo scelto da Levi per Il sistema periodico, “è bello raccontare i guai passati”, è discendente. L’esergo è un proverbio ebraico dell’Europa orientale, tanto è vero che Levi lo riporta anche in yiddish, ma questo non fa che esemplificare – come d’altronde nel caso dell’apostrofe “Voi che vivete” – il fatto che Levi attinga spesso contemporaneamente a più fonti. Abbiamo l’atteggiamento del narratore che, come Manzoni, interviene a commentare i fatti appena descritti instaurando un dialogo diretto con il lettore (a questo proposito Giovanni Tesio parla di Levi come dell’“ultimo moralista classico”, naturalmente sulla scia di Manzoni). Abbiamo molte altre citazioni, come il “mala cosa nascer povero” di Perpetua con cui si apre il racconto “Stagno”; situazioni, per esempio l’orto di Renzo infestato da erbacce dopo la lunga assenza; ed esempi, come il colore dei vestiti dei bravi posto etologicamente in relazione all’aggressività.

Se Manzoni è presente fin da subito nell’opera di Primo Levi, è con I sommersi e i salvati che diventa l’interlocutore privilegiato dal dialogo con il quale emergono alcuni temi decisivi. Va innanzitutto sgombrato il campo dall’interpretazione datata ma purtroppo ancora presente nella manualistica scolastica secondo cui la provvidenza divina alla fine del romanzo aggiusta tutto. Questa visione nell’ottica laica di Levi rappresenterebbe un problema; ma il condizionale è d’obbligo dal momento che Manzoni non ha una visione irenista della storia. Le vicende degli uomini sono al contrario segnate dalla sopraffazione e nei “guai” risiede “il sugo della storia”, una storia segnata dall’ingiustizia e dalla sofferenza che non trova spiegazione; dimensione pessimistica accentuata dal fatto che Manzoni stesso nell’edizione di riferimento del 1840 fa seguire all’ultimo capitolo dei Promessi sposi la Storia della colonna infame e solo al termine di quest’ultima e dell’intero volume scrive la parola “fine”. Inoltre i morti di peste, come i sommersi nel Lager, rimangono morti; e Renzo e Lucia, dopo aver a lungo desiderato il ritorno al paese sul lago, una volta sposi lasciano la terra natia alla volta di Bergamo. Superate la carestia, la guerra e la peste, a rimanere al paese è don Abbondio con il suo inconcusso sistema paramafioso che dà ai ricchi e toglie ai poveri, ossequia i potenti e confonde gli umili con qualche mezza frase in latinorum.

Alla fine della storia Renzo, come Levi, è il reduce che racconta. Renzo è un offeso in bilico tra bianco e nero che serve per la fondamentale tesi leviana sulla zona grigia. Non c’è dubbio che Renzo sia un oppresso, ma in una scena lo vediamo minacciare con il coltello don Abbondio che rifiuta di celebrare le nozze stabilite e accampa pretesti. Per Manzoni don Rodrigo è colpevole non solo dei crimini commessi direttamente o attraverso i bravi, ma è anche il principale responsabile delle oppressioni secondarie compiute dalle sue vittime (quella di don Abbondio nei confronti dei promessi naturalmente, ma anche quella di Renzo verso don Abbondio). Nelle sue parole, “i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”. “Offesi” è parola chiave raccolta da Levi. Già nella Tregua il reduce di Auschwitz descrive “l’offesa, che dilaga come un contagio”. Di fronte ha le pagine di Manzoni in cui si descrive il terrore di fronte alla peste che giunge a scardinare l’umanità, la carità e perfino i vincoli all’interno delle stesse famiglie. Nei Sommersi e i salvati la vergogna per l’offesa e la colpa si intrecciano sullo sfondo del Lager: “È un errore stupido il vedere tutti i demoni da una parte e tutti i santi dall’altra. Invece non era così. Questi santi o oppressi erano in maggiore o minore misura costretti a compromessi, anche molto gravi qualche volta, davanti a cui il giudizio può essere assai difficile”. Nella Storia della colonna infame Manzoni riferisce di quei giudici che riescono “non solo a fare atrocemente morir degl’innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli”. È una descrizione calzante degli uomini dei Sonderkommando, costretti a spogliare i cadaveri nelle camere a gas e dunque a collaborare con il programma nazista di distruzione in cambio di due o tre mesi di vita in più. Come i monatti, sono abitatori di quella estesa terra di mezzo che è la zona grigia. Nei capitoli sulla peste Manzoni con una serie di immagini smonta pezzo dopo pezzo il mito della solidarietà tra oppressi. Nel Lager, scrive Levi, a essere attratti dal potere sono in modo particolare i sadici, i frustrati e “gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e che tendevano inconsciamente a identificarsi con loro” (ecco di nuovo il “contagio”, altra parola chiave). Già quarant’anni prima, in Se questo è un uomo, lo scrittore aveva descritto il furto nel campo, in particolare a danno dei più deboli, come una istituzione, un comandamento non scritto e tuttavia condiviso. Esistono certamente eccezioni, per esempio il sodalizio con l’amico Alberto, così come per Manzoni ci sono eccezioni alla depravazione dei monatti quando uno di loro, sebbene descritto come “turpe”, esita di fronte al corpo senza vita della bambina Cecilia. Ma queste sono appunto eccezioni, non la regola. Don Abbondio, i bravi al soldo dei soverchiatori, i monatti, Gertrude, perfino Renzo: la zona grigia è stipata di abitatori.

Come scrive Andrea Rondini, Renzo è l’autentico palinsesto dell’opera di Primo Levi. “Primo replica Renzo”, dunque, un programma che con un pizzico di ironia possiamo considerare applicato anche in famiglia poiché Renzo è il nome dato dallo scrittore al figlio nato nel 1957 (la moglie, per inciso, si chiamava invece Lucia). Nella maggior parte dei capitoli dei Promessi sposi dopo la fuga dal paese e la separazione, il lettore segue lo sviluppo delle vicende attraverso gli occhi di Renzo, che in questo senso dunque può essere considerato il protagonista principale. Renzo è d’altronde personaggio pienamente umano in cui vediamo sommarsi tensioni, contraddizioni e passioni di diverso segno. Tutt’altra cosa rispetto all’eterea Lucia, rappresentante di un ideale difficilmente raggiungibile e raramente raggiunto, Renzo è un uomo che più volte finisce in situazioni difficili e liminari: escogita il matrimonio a sorpresa a casa di don Abbondio che rimane una forma di violenza alla quale infatti Lucia è contraria; partecipa alle manifestazioni seguite all’assalto ai forni, si ubriaca all’osteria e viene arrestato; torna a Milano mentre imperversa la peste, è scambiato per untore e quasi linciato; minaccia vendetta verso don Rodrigo senza sapere che è in fin di vita nel lazzaretto e per questo viene investito dal rimprovero di padre Cristoforo. Questo è un uomo che si confronta con una realtà fatta (spesso) di persecuzione e offesa. Non è perfetto ma riesce a fare tesoro delle esperienze, ha cioè uno sviluppo, una formazione come il Wilhelm Meister di Goethe. Renzo è per lunghi tratti una figura in bilico, un abitante della zona grigia, un quasi-bravo che, anche grazie a modelli supererogatori come Lucia e padre Cristoforo, alla fine perdona e si salva.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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