Storia e storie di un’amicizia fondata sulla stima reciproca, in forma di intervista.
Un incontro speciale, quello tra Primo Levi e Philip Roth. Per lo scrittore americano, Levi era forse l’autore che apprezzava maggiormente, almeno tra quelli non americani. Per Levi, Roth era uno scrittore famoso dall’ineguagliabile capacità di ascoltare gli altri. Anzi, come precisa Marco Belpoliti, quella dell’ascolto era una capacità reciproca, così importante da consentire ai due protagonisti di costruire tra loro un rapporto di quasi fratellanza. Belpoliti ha curato per Einaudi anche il terzo volume delle Opere Complete dello scrittore torinese, che ha come sottotitolo Conversazioni, interviste e dichiarazioni e che contiene anche l’intervista (anzie, le interviste) che Roth fece a Levi. Ne abbiamo parlato con lui.
Come ha lavorato sul carteggio Levi/Roth e quale ruolo ha nella comprensione dell’opera di Primo Levi?
Devo dire che non ho lavorato sul carteggio tra i due scrittori, ma solo sulla intervista che Roth ha fatto a Levi. Ne esistono diverse versioni. Intanto bisogna dire che quando Roth si recò a trovare Levi nel 1986 a Torino non fece nessuna intervista. O meglio; parlarono insieme di molte cose, visitarono la fabbrica di vernici SIVA in cui aveva lavorato Levi (era in pensione da dieci anni), parlarono in casa dello scrittore torinese, andarono a cena insieme. Poi una volta tornato a Londra, come ho raccontato in un lungo articolo su doppiozero, Roth mandò a Levi delle domande in inglese, cui Levi risposte per iscritto. Da quelle domande Roth ricavò l’intervista che pubblicò sulla NYRB. Levi successivamente all’uscita di quella intervista pubblicò in due puntate su “La Stampa” la versione che aveva inviato a Roth e che differiva da quella apparsa nella rivista americana. Poi vi furono altre versioni fatte da Roth con correzione e vari cambiamenti, dal giornale a un primo volume da lui pubblicato (Chiacchiere di bottega, Einaudi, e poi successivamente). La cosa più importante per me è che Roth colse molti aspetti della personalità umana e intellettuale di Levi. Riconobbe in lui un artista.
Quali sono stati gli elementi che hanno permesso la costruzione di un rapporto speciale tra i due scrittori?
La capacità di Roth di ascoltare. Basta leggere le interviste di quel volume, le conversazioni con autori a lui decisamente simpatetici. Quasi tutti ebrei. Levi si sentì ascoltato e compreso come non gli era mai accaduto prima di allora da uno scrittore. Roth era più noto di Levi come scrittore e questo fu per Levi importante. E a Roth Levi apparve come un fratello maggiore. Una sintonia particolare da quello che traspare dal testo di Roth e dalle testimonianze di chi li vide insieme in quel fine settimana.
Quanto si sono reciprocamente influenzati (nello scrivere successivo e anche nel carteggio che si sono scambiati)?
Non credo che ci siano influenze successive. Si trattò di un riconoscersi reciproco. Levi però non ha lasciato nulla di scritto su questo, almeno di pubblicato. Forse esistono lettere che si sono scambiate. Ma di questo non sono al corrente. Bisognerebbe cercare tra le carte di Roth, se sono accessibili. Le carte di Levi non lo sono, per ora.
Levi sottolinea un parallelismo tra Svevo e Roth, in particolare nei personaggi Zeno Cosini e Zuckerman: quali sono gli elementi comuni?
Probabilmente l’aspetto caratteriale. Ma sono personaggi letterari, forse l’aspetto psicoanalitico che per Roth ha avuto un ruolo nella sua narrativa; così anche per Italo Svevo. Levi è estraneo a tutto questo, lui non aveva simpatia per la psicoanalisi. Ha detto in alcune interviste di avere letto Freud, e lo ha anche scritto. Ma non mi pare che questo possa essere un terreno comune tra i due scrittori, Levi e Roth.
Come (e perché) Levi ha definito la propria identità ebraica e il suo ruolo nell’ebraismo italiano?
Levi si è dichiarato italiano per due terzi e ebreo per un terzo, ma questa parte minore era per lui fondamentale. Ma Levi è un laico, non credente, iscritto alla comunità ebraica di Torino. Su questo aspetto del suo rapporto con il “divino” ne ho scritto di recente su Vita & Pensiero, la rivista della Cattolica.
Il suicidio di Levi è mai stato commentato da Roth pubblicamente?
Non mi risulta. Forse in qualche lettera, ma non ne ho alcuna certezza.
E quali sono state le sue reazioni davanti a questa perdita?
Di sconcerto, di dolore. Una perdita irrimediabile, perché avevamo bisogno della intelligenza e della curiosità di Primo Levi. Negli ultimi anni si era interessato ai temi ecologici, oggi di nuovo importantissimi. Ma ci ha lasciato un’opera importante e vasta su cui riflettere.
Lei, da studioso di Levi, come vorrebbe ricordarlo in questo centenario?
Come un uomo di buona memoria. Come uno scrittore. Come un uomo problematico. Come un uomo.