Un seminario all’Università di Bar Ilan
Si ha perlopiù l’abitudine di domandare dell’impatto della società nel formarsi di idee e concetti. Non meno necessario – come ama ricordare Hanoch Ben Pazi, a capo del dipartimento di filosofia ebraica a Bar Ilan – è indagarne il peso nel modellare i nostri comportamenti, singoli e collettivi. Su questo sfondo ci si è confrontati, in un recente seminario tenutosi a Bar Ilan, sul ruolo degli intellettuali nel dibattito pubblico israeliano. L’urgenza del momento poneva, d’altronde, la necessità di interrogare il rapporto tra riflessione astratta e azione concreta. Erano i giorni dell’operazione Shomrot HaHumot, in cui in buona parte di Israele suonavano le sirene per i missili lanciati da Hamas. I giorni in cui alcune delle cosiddette città miste (meuravot) divenivano teatro di scontri tra cittadini ebrei e arabi – a partire dall’assalto alla sinagoga di Lod e all’uccisione di un arabo, sino a linciaggi da ambo le parti – riportando alla memoria la violenza inter-etnica precedente la fondazione dello Stato e gettando un’improvvisa ombra sulla possibilità, appena affacciatasi, dell’ingresso in una coalizione di governo di uno o più tra i partiti arabi. Era, è, soprattutto quest’ultimo aspetto, dello scontro civile interno alla società israeliana, a presentarsi come non più eludibile da parte di quel settore della ricerca e dell’insegnamento (dalle cosiddette scienze umane sino alla filosofia) che ha tra le sue vocazioni il comprendere l’agire dell’uomo.
Qual è dunque il ruolo degli intellettuali nel dibattito pubblico di Israele? Interrogativo introdotto da Ben Pazi e a cui è stato chiamato a rispondere Moshe Hellinger, docente di scienze politiche alla stessa Bar Ilan. Ben Pazi, riprendendo un intervento di Martin Buber del 1929, anno segnato dagli attacchi arabi contro la popolazione ebraica e da successive violenze tra le parti, ricordava come, proprio nei contesti di maggior acuità dello scontro, emerga l’importanza dell’educazione – nello specifico, sulla falsariga di Buber, quella “umanistica ed ebraica”. Poiché, ricordava Ben Pazi, non vi è nulla di più fattivo e concreto che le parole e i concetti con cui intessiamo la nostra identità e orientiamo i nostri atti. Il rapporto tra pensiero e prassi è, però, lungi dall’essere pacifico. Sarà proprio la capacità degli intellettuali di porsi in ascolto, non fosse che critico, delle condizioni di vita reali, a decidere del corroborarsi o dell’allentarsi del legame tra cultura e società. Sebbene l’interazione tra accademia e società israeliana sarebbe oggi, a detta di Hellinger, carente, non sempre è stato così. In effetti, spiega lo studioso, allorché lo Stato sorse era egemone una visione “repubblicana”, con elementi “aristotelici”, filtrati nella tradizione ebraica attraverso Maimonide. Decisivo era ritenuto il legame tra il singolo e la collettività, tra l’acculturamento dell’individuo e la sua partecipazione alla vita pubblica. Prima ancora del mondo della cultura, era quello politico a restituire tale aspetto. Lo stesso Ben Gurion – continua Hellinger – oltre ad esser stato lettore attento ed eclettico, non esitò, nel prendere posizione su importanti nodi, a rivolgersi a intellettuali di diverse provenienze. Specularmente questi partecipavano alla politica, contribuendo a forgiarla. Luogo simbolo di tale intersezione tra cultura e prassi fu l’Università Ebraica di Gerusalemme dove gli elementi della “cultura ebraico-europea” si allacciavano alle istanze tipiche di Ahad Ha’am, fondatore del ‘sionismo culturale’.
Di contro, osserva Hellinger, il mondo accademico israeliano di oggi avrebbe disertato il dibattito pubblico. La linea di faglia, dunque, è netta. Un cambiamento, viene d’altronde osservato, che non riguarda solo Israele bensì “l’intero mondo occidentale”, segnato dal liberismo e da una concezione individualistica. Elementi, questi, che avrebbero reso vieppiù difficile la sinergia, o comunque il confronto, tra accademia, cultura e società. Non solo. Hellinger segnala un altro aspetto che avrebbe contributo ad accentuare la distanza, se non l’impermeabilità, tra questi due poli: “chi tra gli intellettuali è in effetti interessato ad influire sul dibattito e la vita pubblica non viene comunque accettato dai principali mezzi di comunicazione per il tipo di analisi complesse che – se è un vero intellettuale – necessariamente farà”. Ad essere accettato sarà piuttosto chi “risolve l’analisi in slogan ad effetto, magari provocatori”: il riferimento a Leibowitz è esplicito.
Certo, all’intellettuale israeliano resta la possibilità di elidere lo iato tra teoria e prassi entrando “nella politica in quanto tale, come nel caso di Amnon Rubstein e Shlomo Ben Ami”. Il primo, giurista, membro del Merez, ministro dell’educazione con Rabin e promotore delle due ‘leggi fondamentali’ (hoke’e iesod) promulgate in tema di diritti umani che avrebbero dato vita alla cosiddetta “rivoluzione costituzionale” (si tratta di leggi non derogabili e che forniscono alla Corte Suprema la competenza di giudicare incostituzionale ogni legge che vi entri in contraddizione). Il secondo, storico, militante dell’Avodà, ministro della ‘sicurezza’ e poi degli affari esteri con Barak. Intellettuali impegnati direttamente nel campo politico che sollecitano, nota Hellinger, a ripensare al tema platonico del filosofo-Re. Non è questa, tuttavia, la prospettiva ricercata dal docente. L’aspetto saliente essendo invero dato dalla possibilità (e volontà) di un coinvolgimento nel dibattito in quanto intellettuali. Questo ciò che costituiva cifra della società israeliana, in un passato non lontano. Ad essere oggi imperante, incalza l’oratore, sarebbe un modello accademico se non asettico, comunque autoreferenziale. A questo si oppone l’idea di università – che per semplicità Hellinger riporta alla Scuola di Francoforte – pensata come fucina critica rispetto alla società capitalistica.
Sembrerebbe quest’ultima la strada da percorrere per ricongiungere mondo della cultura e società. Hellinger, tuttavia, contesta tale passaggio per via, si potrebbe dire, di un vizio di forma. Nell’ambito umanistico “la maggior parte delle scuole accademiche sono di sinistra, post-marxiste o post-coloniali”, spesso “post-sioniste se non anti-sioniste”; scuole che impongono sovente un’educazione del ‘contro’ che veicola la propria (di per sé legittima) convinzione, i propri valori e la lettura che a partire da questi viene fatta del reale, finendo così con l’offuscarne le diverse tendenze e stigmatizzando chi non adotta la visione critica propugnata. L’università diviene sì arena del sapere critico, ma al prezzo di sovrapporre completamente il piano della rivendicazione ideale con quello educativo. Né il modello asettico dell’accademia autoreferenziale – quasi che il pensiero vivesse di un’aria diversa da quella che respiriamo – né il modello dell’accademia engagée – dove l’ideale, ormai ideologia, già erode criticità e pluralità.
Quale strada resta, dunque, se non già da percorrere, quantomeno da tracciare? La direzione delineata da Hellinger è al contempo netta nel tratto e articolata nelle linee di svolgimento. Fermezza di convinzioni e complessità di pensiero che paiono quasi restituirne il profilo biografico: “fino ai trent’anni ho fatto parte del mondo haredì”, dice evocando la propria formazione, per poi “non appartenere in maniera totale a nessun gruppo”, situandosi in un qualche punto sulla soglia del frastagliato mondo del sionismo religioso. Hellinger evoca senza titubanze la necessità del pluralismo nell’educazione, da una parte, e di una chiara presa di posizione, dall’altra. Dal tratto netto della rivendicazione alla complessità del contenuto. È quanto emerge – a partire dalla forma linguistica – nel libro scritto a quattro mani con Hershovitz (Obbedienza e disobbedienza civile nel sionismo religioso, 2015) ove, ricorda, “abbiamo discusso sull’uso di ogni parola”, spesso ricorrendo a più espressioni. Così nel caso di “mitnahalim” e “mitiashvim”, due termini cui rispettivamente si ricorrerà se si avrà una sensibilità di sinistra o di destra, per designare i coloni/ coloro che si insediano nei territori della West Bank/Giudea e Samaria. Equilibrio linguistico da perseguire non già allo scopo di eludere le contraddizioni, quanto per accompagnare la presa di posizione da un’analisi che riesca a restituire se non l’oggettività, comunque la complessità del reale. Dove la forma si presenta già veicolo dell’etica. Queste anche le direttive che lo hanno guidato nella stesura del libro Verso dove va lo Stato di Israele? Sfide alla sua identità ebraica e democratica (2019): dare spazio, nell’analisi, ai convincimenti dei principali settori (laici, religiosi, arabi) e indicare ciò che, a proprio avviso, è necessario perseguire. È questa, chiosa Hellinger, la ripresa “di ciò che faceva Beith Hillel”, che “anteponeva alle proprie opinioni quelle di Beth Shammai”. Dalla pluralità interna alla tradizione, con le proprie regole e confini, a quella interna alla società israeliana, comprensiva dei settori, al loro interno eterogenei, di osservanti, laici, arabi.
Cosimo Nicolini Coen ha studiato alla Statale di Milano, dove si è laureato in Ermeneutica filosofica e Filosofia del diritto, e all’Università Jean Moulin III, a Lione; attualmente è dottorando a Bar Ilan. Ha pubblicato il libro Il segno è l’uomo per Durango Edizioni.
Ottimo articolo, che restituisce la complessità della vita intellettuale e della ricerca accademica in Israele per superare lo iato tra valori ebraici, principi etici e politica quotidiana. Kol hakavod.