Cultura
Quando il Coronavirus entra nelle stanze del potere nulla è più come prima

Sull’onda dell’emergenza e in mancanza di rassicurazioni al popolo, le élite politiche mondiali riscoprono le virtù di ciò che è stato a lungo condannato come “statalismo”

Quando il coronavirus entra nelle stanze del potere, il potere si dichiara nudo. Ovvero, si mostra denudato, poiché privo di linee di indirizzo rassicuranti. E non è un bello spettacolo. Poiché rivela la sua fragilità, se non impotenza. Balbetta, si contraddice da sé, afferma una cosa, poi ne certifica un’altra, si arrabatta, si lascia scappare dichiarazioni come quella di Trump, per la quale centomila morti negli Stati Uniti sarebbero già «un successo», ossia il risultato di un «buon lavoro».

Bando ai sarcasmi anche, se nella difficile situazione che stiamo vivendo, sono sempre meglio del cinismo, l’ultima spiaggia prima della disperazione. Non siamo così mal messi. Almeno, lo speriamo. Dopo di che qualche riflessione amara, scevra dagli ideologismi che altrimenti imperversano il “dibattito pubblico”, ci sembra giusta farla. Poiché le comunicazioni che arrivano dalle élite politiche, non solo italiane ed europee, ma da una buona parte del mondo, fanno fischiare le orecchie. Un po’ tutte, infatti, stanno riscoprendo le virtù di ciò che è stato a lungo condannato come «statalismo», sinonimo per certuni dell’orrido “assistenzialismo”, la dipendenza di una parte dei cittadini dai trasferimenti pubblici, senza alcuna contropartita.

Piani di investimenti di miliardi di euro come di dollari; riacquisto di servizi collettivi precedentemente privatizzati; ipotesi – a dire il vero ripetute in maniera rutilante – di interventi per tutelare le “componenti più fragili della società” e così via. In queste ore, in questi giorni, è uno snocciolare di miliardi. Fa riflettere che tra quanti si stanno esprimendo in questi termini ci siano anche coloro che fino a poche settimane fa sembravano nutrire ben altre posizioni, a partire da chi, come l’Amministrazione britannica, si esprimeva quasi in termini di “darwinismo sociale”: chi ce la potrà fare avrà superato la prova, altrimenti non potremo fare altro che prendere atto che non ha varcato la soglia della sopravvivenza. Poi, nel volgere di pochissimo tempo, anzi, di poche ore, abbiamo misurato repentine inversioni, di centottanta gradi.

Prima di questo dramma collettivo, si è detto, e non a torto, che le collettività dovessero imparare a camminare con le loro gambe; si è affermato che lo Stato non solo non potesse né dovesse supplire ad una società civile ed economica, altrimenti in grado di produrre ricchezza come anche, evidentemente, di ripartirla da se stessa, senza l’intervento degli Stati e dei governi; a lungo si è parlato del transito da una società dei diritti (intesi come garanzie offerte a prescindere dai riscontri di fatto) ad una delle «opportunità» (nella quale si sarebbe dischiuse potenzialità altrimenti represse, a fronte – tuttavia – di minori tutele).
Quanto tutto ciò, nella sua stessa auspicabilità di principio, esulasse concretamente dai riscontri della diseguaglianza che in questi decenni ha ripreso vigore nelle nostre società, nessuno lo andava dicendo.

Così come nessuno – quanto meno, se ve ne erano, si trattava semmai di  pochi ed inascoltati individui – ha voluto cogliere i rischi che si accompagnano a quegli scenari di ritorno, quando le collettività si trasformano perdendo parti di se stesse: ovvero, che sono le stesse società, nel loro complesso, a diventare più fragili. È vero che non lo saranno nel loro insieme, lasciando semmai esposte quelle parti più deboli a prescindere, tali anche perché maggiormente soggette alle stesse pandemia per via della preesistente indigenza. Esiste tuttavia un nesso diretto, empirico, comunque intuitivo tra avere segmenti significativi di un Paese del tutto indeboliti e la loro involontaria propensione a subire con maggiore violenza gli effetti di una emergenza sanitaria. Riproducendoli e replicandoli nel tempo, anche tra coloro che possono altrimenti garantirsi, in genere aprendo il proprio portafoglio, una medicina a pagamento. Ragionare sulla globalità vuole dire comprendere queste infinite interconnessioni e non blaterale su modellini ideologici che ondeggiano tra opposte opzioni ideologiche, in un “Risiko!” degli spettri: il confronto tra il «mercato», che da sé tutto può ed aggiusta, contro lo «Stato», dispensatore magico di ogni bene,  assomiglia quasi ad un mediocre filmetto giapponese degli anni Cinquanta e Sessanta, dove i mostri di cartapesta, svegliati da una qualche esplosione atomica,si prendono a cazzotti tra di loro.

Tra la malaccorta gestione di un Boris Johnson, poco prima di scoprirsi egli stesso positivo e malaticcio, l’irridente negazionismo di alcuni capi di Stato come Jair Bolsonaro, la predatorietà fascista di Viktor Orbán, che ha colto al volo la crisi ungherese per farsi votare, dalla sua sola maggioranza parlamentare. i pieni poteri, c’è poi chi ha bisogno di fare la sua periodica comparsata, rischiando di trasformare il dramma in una farsa. Così come un certo comico genovese, che non fa per nulla ridere, il quale non ha perso occasione per lanciare la sua proposta: «è arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito di base universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi». Ed ancora: «abbiamo sempre detto che circa il 50% dei posti di lavoro negli anni sarebbe scomparso per l’automazione e i cambiamenti tecnologici. Quei cambiamenti adesso sono avvenuti non in anni, ma in un solo mese. Con un colpo di tosse».

La seduzione di queste affermazioni è l’accostamento tra i macroproblemi, dai quali ci sentiamo tutti toccati per davvero, sentendoci quindi impotenti, a semplicistiche ipotesi di soluzione. Quasi che un tocco magico potesse risolvere buona parte delle grandi difficoltà che ci si parano dinanzi. Si tratta di un agire auto-consolatorio, un piccolo pannicello caldo dinanzi all’intuizione, per molti di noi, dei probabili effetti, non solo sulla nostra salute, ma anche e soprattutto sulle nostre economie personali, famigliari, di comunità a venire. Da questa gigantesca crisi mondiale, al netto delle enormi difficoltà sanitarie che, plausibilmente, dureranno ancora diverso tempo, non si può pensare di uscire così come ne siamo entrati. In Italia già le condizioni precedenti alla pandemia erano estremamente problematiche.

Il rischio che ad essa, in quanto crisi sanitaria generalizzata, si leghino, in immediata successione, una furiosa crisi economica che diventerebbe da subito un dramma sociale di grandi proporzioni, purtroppo non è una ipotesi remota. I trasferimenti di denaro – ammesso e non concesso che possano durare quel che basti (il fattore tempo è tanto strategico quanto, al momento, incalcolabile) – potranno avvenire per un arco di settimane non indeterminato. In quanto richiedono delle sorgenti dalle quali attingere, tra il prelievo fiscale nazionale, i sostegni finanziari europei, eventuali accantonamenti e così via. Si tratta di risorse a termine: per essere riprodotte necessitano che il ciclo economico, più prima che poi, riprenda il suo movimento.

Al momento, lo Stato e i mercati, evocati come totem, rischiano di trasformarsi in simulacri della realtà. Se non altro poiché al momento siamo tutti “statalisti”. Il poi si vedrà, con il rischio – però – che quella cosa che chiamiamo pubblica amministrazione ne esca spolpata dall’emergenza in corso. Basti anche solo pensare che la sanità, in Italia, è stata trasformata completamente in un circuito dell’emergenza. In un solo mese e mezzo. È la vera unità combattente, se si vogliono usare le metafore belliche, pur nella loro discutibilità. Quando l’urgenza si sarà attenuata, si dovrà procedere ad una progressiva smobilitazione. La quale, come sa chiunque abbia studiato le guerre, è un grande costo già in sé. Se c’è qualcosa che può assomigliare ad un’opportunità, quando si attraversa la bufera, è lo sforzo di mettersi a cercare (il trovarle è altro paio di maniche) visioni diverse delle cose, delle relazioni, delle stesse persone, tra il prima e il poi. Non esiste nessuna “morale” nelle grandi pandemie; le crisi collettive non ci consegnano altri significati che non siano quelli che vogliamo attribuire ad esse. Se ci occorre l’immunità di gregge, cerchiamo però di non trasformarci in un gregge che continua a belare sempre nel medesimo, ossessionante modo.  Poiché la nudità del potere si accompagna da sempre alla logica conformistica delle pecore che si credono leoni: le prime finiscono arrosto, i secondi impagliati nei confortevoli salotti dei veri cacciatori, quelli che sanno come arricchirsi dalla rovina altrui.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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