Le evoluzioni dell’arte del nominare, in un dialogo profondo tra l’uomo e il Supremo
Esiste un detto popolare ebraico, annotato nel libro di Samuele (25:25), che indica che il nome di una persona ha a che fare con il suo carattere e il suo modo di essere: Kishmo ken hu – Egli è come il suo nome. Nella tradizione ebraica il nome quindi non serve solo a riconoscere e identificare qualcuno ma rappresenta l’essenza stessa di quella persona, rispecchia ogni sua caratteristica.
Ricorda Jonathan Pacifici in un commento alla Parashà di Vaerà, che si legge questa settimana, che “La prima cosa che Adamo fa, appena creato, è dare dei nomi a tutto ciò che riempie il mondo. Il nome è identità. Nell’ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche dell’individuo”.
È per questo motivo che i nomi per la tradizione ebraica vanno trattati con lo stesso rispetto che riserviamo agli esseri viventi, e se ciò è valido per l’uomo, lo è ancora di più per Dio.
Non pronunciare/scrivere/digitare il nome di Dio invano
Nell’ebraismo Dio non è solo un concetto filosofico, lo scopo finale a cui tutto tende. Spiega Lavinia Cohn-Sherbok su My Jewish Learning che Egli è un Dio-individuo, il vero eroe della storia biblica, la guida e il mentore del Popolo Eletto. Per questo ha un nome proprio che nei testi sacri ebraici è scritto utilizzando le lettere Yod-Heh-Vav-Heh (YHVH). Composto da sole consonanti, questo nome è impronunciabile e ineffabile: il divieto deriva, secondo alcuni maestri, da un’interpretazione restrittiva di uno dei Dieci Comandamenti, “Non pronuncerai invano il nome di YHVH, tuo Dio, perché YHVH non lascerà impunito chi pronuncia il Suo nome invano” (Esodo 20:7).
A rendere il Nome indicibile esiste anche una questione più pratica: oggi nessuno conosce la sua pronuncia corretta. Per secoli il tetragramma è stato considerato troppo sacro per essere nominato, e solo il sommo sacerdote conosceva la sua corretta pronuncia. Con la distruzione del Secondo Tempio e il divieto di pronunciare il Nome al di fuori di esso, le vocali del tetragramma sono andate perse.
Se sull’impronunciabilità del Nome i maestri sono tutti d’accordo, sul suo significato esistono pareri discordanti. Tuttavia, come dichiarato da Rav Riccardo Pacifici in Discorsi sulla Torah, la maggior parte degli studiosi contemporanei crede che quelle quattro consonanti derivino dalla radice del verbo ebraico HYH (“essere”, “divenire”) e che la traduzione più valida del tetragramma sia “Io sono Colui che sono”.
Oltre ad essere indicibile, il nome di Dio non può neanche essere scritto. Questo divieto, come spiegato sulla Jewish Virtual Library, è osservato soprattutto dagli ebrei ortodossi per paura che il Nome, una volta fissato su una superficie, possa essere deturpato o cancellato. Ciò è valido soltanto per le forme di scrittura permanenti, e alcune decisioni rabbiniche recenti hanno stabilito che le piattaforme virtuali e del web sono esentate dal divieto, hanno una natura temporanea e su di esse il nome di Dio può essere scritto, copiato e cancellato in ogni momento.
Ma quanti nomi ha Dio?
La Parashà di Vaerà si apre in questo modo:
Ed il Signore parlò a Mosè dicendo: “Io sono il Signore (YHVH). Sono apparso ad Abramo, Isacco e Giacobbe come EL SHADDAY e non gli ho fatto conoscere il mio nome YHVH”
Basta una sola frase per rendere evidente che nella Torah Dio viene chiamato in molti modi diversi, alcuni introdotti per evitare la profanazione del Nome Ineffabile. Il sito JewFaq fornisce una guida esaustiva dei nomi più comuni associati a Dio:
Adonai: è un plurale maiestatis che significa “i miei signori”. È stato nei secoli uno degli appellativi più comuni di Dio, ed è quello usato maggiormente nella Torah (circa 440 volte). Quando la pronuncia del tetragramma iniziò a essere proibita per gli ebrei, il popolo la sostituì nelle preghiere scritte e recitate con Adonai. Il paradosso è che negli ultimi anni anche questa parola è diventata, secondo molti maestri, troppo sacra per essere pronunciata frequentemente, ed è stata sostituita con HaShem (“il Nome”).
Elohim: parola che in italiano può essere semplicemente tradotta come Dio, ma che in ebraico corrisponde a un maschile plurale. È utilizzata al plurale in riferimento a principi, giudici e divinità pagane; concordata invece, il più delle volte, con aggettivi al singolare quando si riferisce a Dio. Alcune variazioni di questo nome sono El, Eloha, Elohai e Elohaynu.
Shadday: secondo alcune ipotesi sarebbe da tradurre letteralmente come “colui che ha detto basta”, in riferimento al fatto che quando Dio creò l’universo, la sua espansione si fermò solo nel momento in cui fu il Supremo a decretarlo.
Districarsi tra divieti e pluralità di nomi può non essere semplice: Abramo, Isacco e Giacobbe conoscevano Dio come El Shadday, Mosè come YHVH, fino a qualche anno fa gli ebrei ortodossi si servivano della parola Adonai, oggi utilizziamo più frequentemente HaShem. È come se Dio ci stesse dicendo di attendere ancora per conoscere il Suo Nome, che questo prima o poi verrà annunciato. “Dio è inestricabilmente legato al concetto di Rivelazione, e la Rivelazione è progressiva” spiega Rabbi Jordan D. Cohen in un articolo dal titolo Il nome di Dio in evoluzione, e aggiunge “scopriamo sempre più sul nome di Dio con il passare del tempo, lentamente, arrivando a un livello di conoscenza via via più alto. Dio è concepito da ogni generazione in modo diverso, e in forme differenti anche da ogni persona all’interno della stessa generazione”.
Perciò, anche se Dio è uno, unico e assoluto, esistono cento e più modi per chiamarlo, nominarlo e per rivolgersi a lui. Se ci affidiamo anche noi al concetto di rivelazione possiamo credere che ognuno arriverà un giorno a conoscere e chiamare Dio, non nel modo giusto, ma a modo proprio e nel momento più opportuno.
Ricordo a chi non c’era o a chi lo ha dimenticato che, fino a 30-40 anni fa, tra gli ebrei italiani, e forse anche altrove, era molto diffuso riferirsi a Dio come “Kadòsh Baruchù” che si può tradurre come “Il Santo Benedetto”. Questo accadeva prima che si adottassero altri nomi, come Ha–Shem, probabilmente in uso presso le comunità askenazite.
“Io sono colui che sono” è la traduzione greca dei LXX (III sec. a.C.). Traduce Esodo 3, 14: Ehjè ascèr ehjè
La voce verbale ehjè è la prima persona singolare di un tempo che indica un’azione iniziata ma che si sviluppa perché non ancora compiuta e per questo generalmente viene tradotto con un futuro. Letteralmente quindi: Sarò colui che sarò. I verbi tradotti con due tempi presenti indicano finitezza. Almeno uno dei due deve essere un futuro. I LXX, probabilmente, tradussero così per venire incontro alla cultura greca che considerava il divenire = inconsistenza. “Io sono colui che sono” è la pienezza dell’essere, fondamento della filosofia greca; Io sarò colui che sarò è la meraviglia del divenire, fondamento del rapporto di Dio con l’uomo che si evolve nella storia.