Cultura
Quel giorno in cui mi disse: “Sono gay”

Al Festival di Cultura Ebraica di Firenze due madri hanno raccontato l’esperienza del coming out da parte dei figli

“Ma te lo ricordi Daniela di quando hai fatto coming out?” “Eccome Fiora! Ora te lo racconto”. Fiora e Daniela, rispettivamente Fiora Branconi e Daniela Spizzichino, si parlano dai due lati di un tavolo davanti al pubblico del Balagan Cafè, il festival di cultura ebraica che avviene nel giardino della Sinagoga di Firenze, dando vita a una performance teatrale-esistenziale, colorita e commovente. Sul suddetto tavolo è stata stesa la bandiera dell’Agedo, l’associazione genitori, parenti e amici di persone Lgbtq+.

Daniela e Fiora scherzano con il pubblico, parlano di quando i rispettivi figli hanno fatto loro la rivelazione importante di essere omosessuali. Dicono di “essere cadute dal pero”, espressione toscana per dire che sono rimaste sbalordite. Non se l’aspettavano. Fiora si è rinchiusa in bagno a cercare su wikipedia che cosa significassero le parole bisessuale” e “non binary”, Daniela che ha due figli gay si è sentita dire da comari pietose: poverina, meno male che di figli ne hai quattro, almeno due sono “sani”. Sano/malato.

Si scherza, certo, ma si parla anche di accettazione, di arricchimento, perfino di uscita dalla solitudine quando si è aperto un mondo, una rete di conoscenze di persone desiderose di comunicare, scambiare esperienze, trovare una zona sicura per parlare. Questo bisogno di raccontare i meccanismi dell’integrazione in modo semplice, diretto, attingendo all’autobiografia, porta i rappresentanti di Agedo, spesso genitori, ad andare nelle scuole (ma i ragazzi sono avanti, serve di più agli insegnanti) e nelle aziende dove sempre più persone si dichiarano ai colleghi oppure al contrario possono soffrire di mobbing.

Ma il coming out, come scrivevo prima, lo fanno anche i parenti, quando si sentono pronti a dire finalmente agli altri che hanno figli con orientamenti sessuali diversi. Sembra semplice ma non lo è. Ricordo ancora quello di Daniela. Avvenne durante una giornata della cultura ebraica dedicata allo storytelling dove io, allora responsabile delle attività culturali, avevo invitato l’associazione romana Maghen David Keshèt e in particolare Serafino Marco Fiammelli, suo presidente, a raccontarcene gli obbiettivi. Con visibile emozione ma con voce sicura, Daniela si confrontò con l’altra sua famiglia, la comunità ebraica di Firenze, che accolse il suo racconto-confessione con un applauso caloroso.

Firenze è una città inclusiva e di conseguenza lo è anche la nostra comunità, almeno per tanti aspetti. Ma è sempre così? Fiammelli ci parla di una realtà diversa, complessa e articolata, perchè il mondo ebraico stesso non è monolitico ma frastagliato.. Dal punto di vista halakico l’omosessualità è un tabù, vi fa riferimento il Levitico in due punti e non sono a favore del mondo Lgbtq+. Certo, un conto sono le comunità ortodosse, un altro quelle conservative che hanno addirittura rabbini gay o quelle reformed che soprattutto negli Stati Uniti sono totalmente aperte al mondo omosessuale.

Per il mondo osservante non si parla di accettazione dal punto di vista religioso, ma perlomeno di convivenza pacifica a livello umano, di un tentativo di rispetto, anche se un’ufficializzazione in termini “ legali” sembra lontana. L’associazione di Fiammelli lavora da anni contro ogni forma di discriminazione – come del resto l’Arcigay – ovviamente con particolare attenzione agli ambienti ebraici. In fondo, ci sono molte similitudini tra la situazione storica e sociale degli ebrei e degli omosessuali, spesso entrambi vittime di odio, razzismo, insulti e discriminazioni e nello stesso tempo compatti, determinati ad affermare la loro identità e fare gruppo per garantire i diritti di chi soffre ed è perseguitato. Queste due entità, dice Fiammelli, dovrebbero imparare a sostenersi e a far fronte comune nelle battaglie, perché spesso gli obbiettivi sono comuni. Solo che i giovani ebrei quando sono vittime di odio e fanatismo hanno sempre la famiglia come punto di riferimento, i giovani gay non sempre trovano la stessa comprensione nei familiari e allora ben vengano Agedo o lo stesso Maghen David Kesher per farsi da tramite, per accogliere e consigliare.

Certo, in Israele la situazione è molto diversa se si pensa che l’esercito riconosce ormai da anni le coppie gay anche a fini pensionistici, non riforma più gli omosessuali e anzi ha introdotto norme per facilitare l’ingresso dei transgender. In Italia siamo ancora molto indietro, per esempio manca una rete a livello nazionale che metta in contatto gli ebrei omosessuali permettendo loro di scambiarsi vissuti e informazioni, mentre ne esistono da più di quarant’anni nel Nord Europa, in America e naturalmente in Israele. Siamo in ritardo di un secolo rispetto al resto del mondo occidentale! Ma soprattutto circola un discorso subdolo, purtroppo supportato da pubblicazioni recenti, che esistano delle minoranze; e che poi ci siano gli altri, le masse, i normali, quelli che vogliono vivere come vogliono e con chi vogliono, al sicuro dalla diversità che dovrebbe venire esiliata in quel termine “minoranza” proprio come avveniva per i folli, relegati ai margini della città e della società: così scrive Michel Foucault nel suo libro Storia della follia nell’età classica.

Il fatto è che ognuno di noi è una minoranza, perché siamo tutti diversi e composti da tante parti e tendenze. E mentre al cinema film come Pride ci ricordano l’importanza dell’orgoglio di sostenere lotte fondamentali per i diritti civili di tutti, in Italia viviamo altri film dell’orrore, e constatiamo con tristezza che una pubblicazione razzista, antisemita e omofoba è prima nella classifica Amazon, segno che molti la leggono e ci si riconoscono. Magari acquistano il libro per curiosità più che per convinzione, ma l’accettazione è ancora lontana. Bisogna quindi stare in guardia, continuare a tenere aperto un dialogo; cercare di coltivare convivenza e almeno riconoscimento di uno stato di fatto anche da parte di chi è scettico e vede nell’omosessualità e nell’ebraismo dei nemici da combattere e tenere lontani. Insomma, nervi saldi e occhi aperti: la battaglia contro l’odio inizia proprio dalla parole malate. Guai a cadere dal pero!

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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