In uscita per Giuntina le sue “Diciannove lettere sul giudaismo”, un’occasione per riscoprire il giudaismo rabbinico. Con una guida decisamente speciale
Sembrerà paradossale, ma le origini della moderna ortodossia religiosa, in seno all’ebraismo, sono connesse al sorgere della “riforma ebraica” nella Germania dei primi decenni del XIX secolo. Nel solco delle idee dell’haskalà [l’illuminismo ebraico], di cui fu icona il filosofo Moses Mendelsshon (1729-1786), e nella vena storicizzante degli studi ebraici – a cui dal 1819 si dedicò un gruppo di eruditi votatisi alla Wissenschaft des Judentums o Scienza del giudaismo – buona parte dei rabbini tedeschi negli anni Venti e Trenta di quel secolo cercarono diversi modi per modernizzare la vita ebraica, a partire dalla sua liturgia giudicata troppo lunga e per alcuni contenuti addirittura obsoleta.
Venivano così gettate le basi, in parte ideologiche e in parte pratiche, per la nascita e lo sviluppo del movimento riformato nell’ebraismo, quello che in America (dove mise radici già dagli anni Cinquanta dell’Ottocento) continua a chiamarsi Reform Judaism, mentre in Europa si preferisce definirlo con gli aggettivi Progressive oppure Liberal. A prescindere dalla nominazione, si tratta di un fenomeno storico che rappresenta una significativa discontinuità con la struttura e il pensiero del giudaismo tradizionale, sopravvissuto a espulsioni e persecuzioni oltre che ai massacri medievali fino appunto a tutto il XVIII secolo. In effetti, nel bene o nel male (a seconda dei giudizi storici o religiosi che se ne dànno), è solo con questa “rivoluzione” che gli ebrei e il giudaismo entrano culturalmente nella modernità.
Tuttavia, nei territori tedeschi (in Europa dell’est i venti dell’haskalà non soffiavano ancora forti) non tutti gli ebrei brindarono a quei cambiamenti liturgici e alcuni gruppi si opposero duramente – in nome della Tradizione ricevuta – a quel tentativo di “germanizzare il giudaismo” che equiparava le sinagoghe ai templi dei protestanti e i rabbini ai loro pastori; oltre all’organo e al coro, anche l’abbigliamento rabbinico doveva rendere il culto ebraico simile a quello cristiano. Alcuni rabbanim, specie in Boemia e Ungheria, reagirono scomunicando i correligionari che abbracciavano anche solo qualche forma di modernizzazione.
Ora, tra i maestri che compresero la portata di quei cambiamenti e cercarono di trovare una via intermedia tra quelle riforme e la totale chiusura a ogni tipo di modernità si distinse, per visione e per iniziativa culturale, il rabbino Raphael Samson Hirsch (Amburgo 1808-Francoforte s.M. 1888). Nato in una famiglia di mercanti eruditi e religiosi, in una città allora sotto il controllo della Francia napoleonica, il giovane Hirsch si formò in scuole dal severo curriculum dedicato alla Bibbia e al Talmud, studiando con i chakhamim Yitzchaq Bernays e Jacob Ettinger e raggiungendo presto livelli di eccellenza. Nel 1830 ricevette così il titolo rabbinico e nello stesso anno si iscrisse all’università di Bonn (come facevano quasi tutti i giovani rabbini tedeschi in quel momento storico), dove rimase per un paio di semestri senza conseguire gradi accademici. Per tutto il decennio seguente egli svolse il ruolo di rabbino capo del Gran Ducato di Oldenburg, in Bassa Sassonia, ed è da tale posizione che si trovò a rispondere alle fortissime pressioni riformistiche che agitavano allora le comunità ebraiche nella confederazione tedesca. Ciò lo spronò a produrre alcune delle sue opere fondamentali, scritte in tedesco (segno già di accettazione dei tempi nuovi), tra cui le Diciannove lettere sul giudaismo, pubblicate nel 1836 – la cui traduzione in italiano è in corso e uscirà per Giuntina – e quella sintesi di “filosofia dell’halakhà” che porta il titolo emblematico Chorev ovvero saggio sui doveri di Israele nella galut, cioè in esilio, apparsa nel 1837.
Negli anni Quaranta Hirsch divenne guida spirituale nelle comunità ebraiche di Emden (1841-46) e poi di Nikolsburg (1847-51). Qui, in aggiunta, fu nominato rabbino capo dell’intera Moravia dove ricevette frequenti critiche sia dai riformati sia dai tradizionalisti. Nel 1851 venne infine chiamato alla cattedra rabbinica della sinagoga ortodossa Adas Yeshurun di Francoforte sul Meno, rimanendovi fino alla fine dei suoi giorni. È a questa fase del suo magistero che risalgono i grandi commenti alla Torà (pubblicati in cinque volumi tra il 1867 e il 1878), al libro biblico di Tehillim (i salmi) e al siddur (il libro di preghiere), quest’ultimo pubblicato dopo la sua morte. Inoltre nel 1855 Hirsch fondò e diresse per tre lustri una rivista intitolata Jeschurun – che è uno dei nomi del popolo ebraico – dalle cui colonne approfondì numerosi aspetti del pensiero ebraico e dell’halakhà. Tutti scritti in tedesco, questi testi ebbero ampia diffisione e vennero più volte tradotti e antologizzati. Allo studio delle fonti, inoltre, Hirsch accompagnò sempre da una parte un’intensa pubblicistica (onde contrastare occasionali testi o attacchi antisemiti) e dall’altra una variegata attività organizzativa, tesa a dare architettura e sostegno al movimento contro-riformista ossia a quelle congregazioni o sinagoghe che volevano coniugare davvero tradizione e modernità. Tale movimento cominciò a essere chiamato neo-ortodossia. Fu proprio la sua lealtà alla tradizione (e alla fede nel messia-re che deve radunare i dispersi e farli tornare in eretz Israel) a rendere Hirsch insensibile, quando non apertamente contrario, al nascente nazionalismo ebraico, che avrebbe alimentato i sogni e i programmi del sionismo e che ebbe l’appoggio religioso di un altro importante rabbino tedesco, Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874).
Le Diciannove lettere sul giudaismo, che Hirsch firmò con lo pseudonimo Ben Uziel, sono un immaginario dialogo epistolare tra un giovane rabbino-filosofo di nome Naphtali e lo studente ebreo Benjamin, ed esplorano temi come il valore della religione in generale e del giudaismo in particolare, e soprattutto la perenne attualità delle leggi della Torà e degli insegnamenti dei maestri di Israele, validi sempre pur nel cangiare delle epoche e delle culture nelle quali le molte generazioni di ebrei si trovano a vivere. Già nel 1835 Hirsch aveva steso un compendio ragionato e sistematico delle “leggi ebraiche” in un opera ponderosa, che aveva intitolato Chorev [Horeb in traduzione occidentale], che è il secondo nome del Sinài, il monte della rivelazione divina a Mosè e ai figli e alle figlie di Israele. Di più, all’inizio egli aveva progettato un distico, una ‘duplice tavola’ per così dire, da intitolarsi Moriah und Chorev, due tomi il primo dei quali – il Moriah, eco della “legatura di Isacco” – avrebbe dovuto trattare le idee bibliche su Dio, l’uomo e il mondo; il secondo, il Chorev, dei contenuti della rivelazione da intendersi come unità inscindibile di Torà scritta e Torà orale. Ma la pressante contestazione dei riformatori nei confronti dell’halakhà spinse Hirsch a porre mano anzitutto a una nuova presentazione delle norme di vita di Israele e a lasciare per un secondo momento la sintesi biblica (che finì per non essere mai scritta, sebbene molti argomenti biblici vennero elaborati in forma di articoli sulla rivista Jeschurun). Le Diciannove lettere furono scritte come una sintesi di Chorev, per saggiare il terreno in prospettiva editoriale in vista della sua opera maggiore, che poi venne in effetti pubblicata.
L’opera di questo padre nobile della moderna ortodossia ebraica può rappresentare oggi un’inattesa scoperta e un’occasione, dentro la cultura occidentale, per rivalutare l’intera eredità biblica con la sua più autentica interpretazione, quella del giudaismo rabbinico, che è un oceano sul quale si può navigare solo se guidati da grandi maestri del calibro dello stesso Raphael Samson Hirsch.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma