Ritratto del grande talmudista a pochi giorni dalla sua scomparsa
È stata tutta una questione di libertà umana, la Shoah. In un momento in cui Dio si è fatto da parte per lasciare che l’essere umano esprimesse se stesso, nel bene o nel male, sono state trucidate sei milioni di persone. E molte si sono salvate grazie a chi ha rischiato la propria vita per loro.
Questa era l’interpretazione della Shoah che dava uno dei più grandi esegeti e talmudisti del XX secolo, rav David Weiss Halivni z.l., che è mancato a Gerusalemme lo scorso 29 giugno.
Era nato a Kobyletska Poliana (allora in Cecoslovacchia, oggi in Ucraina) nel 1927 ed era cresciuto a Sighet, la città che diede i natali ad Elie Wiesel, con cui David Weiss ha condiviso l’ambiente di formazione, la tragica esperienza dei campi di sterminio, la sopravvivenza alla Shoah, ma non l’atteggiamento maturato in seguito. Se Wiesel uscì dai campi essendosi allontanato completamente dalla pratica religiosa, David Weiss restò per tutta la vita un ebreo ortodosso e un grandissimo studioso delle fonti rabbiniche. D’altro canto fin dalla più tenera età era un bambino prodigio: iniziò a studiare Ghemarà a cinque anni e già quando ne aveva nove non c’era più un maestro che fosse in grado di insegnargli qualcosa. Di quegli anni ricorda: «La mia famiglia non era particolarmente ricca e io mi guadagnavo i primi soldini citando il Talmud a memoria: ne conoscevo 200 pagine. Ricordo che una volta un uomo mi chiese di dirgli dove si trovava la ventitreesima menzione della parola “pane” e io glielo dissi. E per dimostrargli che non sbagliavo gli citai anche la decima, la quindicesima, la ventesima. Finché non mi diede 25 lei di premio». Fu ordinato rabbino a soli 15 anni, ma era il 1942 e la furia nazista imperversava nell’Europa orientale. Nel 1944 fu deportato ad Auschwitz e poi a Wolfsberg e Mauthausen ma si salvò, unico di tutta la sua famiglia. Avrebbe detto in seguito: «Ho perso tutta la mia famiglia. Dal 1944, fino a quando sposai Zippora, fui del tutto solo».
Che cosa poteva fare un ragazzino ultraortodosso, che parlava solo jiddish, solo al mondo, in un momento in cui il suo mondo era stato spazzato via? Per David Weiss la risposta fu abbastanza semplice: emigrare negli Stati Uniti. Dal momento che non sapeva una sola parola d’inglese ed ignorava l’esistenza dei dizionari jiddish-inglese, trascorse un anno a Budapest per imparare l’ungherese così da poter utilizzare un dizionario ungherese-inglese e apprendere anche questa lingua. Quando arrivò negli USA si presentò il problema di cosa fare di lui, che era certamente troppo grande per essere dato in adozione e troppo religioso per accettare di vivere nella maggioranza dei contesti in cui si sarebbe potuto inserire. Qualcuno ebbe l’idea di mandarlo da un rabbino e la scelta cadde su Shaul Libermann (1898-1983), il più grande talmudista dell’epoca, che per oltre quarant’anni insegnò al Jewish Theological Seminary rappresentandone l’ala più rigorosa ed osservante. Per il giovane David l’incontro con Libermann fu quasi uno shock: era la prima volta che vedeva un rabbino senza la barba e così cominciò ad interrogarlo per verificare che fosse adeguatamente preparato. Evidentemente il professore superò l’esame, perché David Weiss si mise alla sua scuola, studiò anche materie secolari e conseguì un master in Filosofia. Diventato cittadino statunitense nel 1952, nel 1957 divenne lui stesso professore presso il Jewish Theological Seminary e dal 1986 al 2005 insegnò anche presso la Columbia University di New York: nonostante il legame con il JTS, non abbracciò però mai la corrente conservative e rimase sempre strettamente ortodosso, come del resto aveva fatto anche Liebermann.
Nel 2005, desiderando di «lasciare spazio ai giovani», diede le dimissioni e fece aliyah, aggiunse al suo cognome la versione in ebraico per non dover più portare un nome che gli ricordava troppo gli anni del nazismo e iniziò ad insegnare all’Università ebraica di Gerusalemme e a quella di Bar Ilan. Nel 1985 ricevette il Premio Bialik, nel 2008 il Premio Israele. Tra le sue opere più importanti, oltre all’autobiografia The Book and the Sword: A Life of Learning in the Shadow of Destruction (1996) e al ponderoso volume Meqorot u-mesorot, vanno ricordati il testo di esegesi Peshat and Derash (1991), Revelation Restaured (1997) e Breaking the Tablets. Jewish Theology after the Shoah (2007). Nel testo del 1997 Halivni lavora sull’idea che la Torah sia stata rivelata al Sinai, ma abbia bisogno di essere “restaurata”, cioè compresa, recepita, risanata dai fraintendimenti che l’hanno accompagnata fin dal primo momento (basti pensare all’episodio del vitello d’oro). Tale operazione di “restaurazione” spettò per primo a Ezra, al ritorno da Babilonia, ma ogni generazione di ebrei deve assolvere sempre di nuovo a tale compito. E se proprio ai piedi del Sinai si consumò il tradimento del vitello d’oro e la conseguente rottura delle tavole da parte di Mosè, a questa immagine delle tavole rotte deve il titolo l’opera del 2007, che è una riflessione teologica sulla Shoah. L’idea di Halivni è che, come Dio si è contratto prima della creazione del mondo per lasciare spazio all’altro da sé – come insegna la qabbalah luriana – così debba fare sempre di nuovo per non prevaricare sulla libertà umana. «Onde evitare che l’intero tzimtzum sia divorato dalla presenza divina alterando il libero arbitrio dell’uomo, il Santo deve periodicamente rigenerare lo tzimtzum, restaurandolo alla sua fonte originaria e permettendo così al libero arbitrio di funzionare come prima. Ciò avviene molto raramente e non ha paralleli nella storia. Nondimeno, quando avviene, l’umanità raggiunge l’acme della sua libertà morale, che può esercitarsi tanto nel bene quanto nel male, ossia al punto in cui l’intervento dall’Alto è al minimo, e fino a quando il divino ha riequilibrato la bilancia tra la libertà limitata dell’umanità e l’assoluta libertà di Dio». Questo è esattamente ciò che è accaduto durante la Shoah, che rappresenta il momento di maggior lontananza di Dio dall’uomo ma, di conseguenza, l’inizio di un periodo di necessario riavvicinamento tra Dio e uomo.