Storia di un rabbino rivoluzionario
Tra i grandi maestri del chassidismo ukraino, Levi Itzchaq di Berditchev (1740-1809) è uno dei più leggendari e popolari di sempre. Tra le storie tramandate su di lui cominciamo con questa: sarebbe stato il primo rabbino a fare uno ‘sciopero della fame’; sì, uno sciopero, non un digiuno ascetico (quest’ultimo tipo di digiuni era praticato da quasi tutti i grandi maestri del passato, qabbalisti o talmudisti che fossero). Avrebbe infatti deciso di smettere di mangiare non per elevarsi spiritualmente ma per protestare contro suo suocero, il quale gli aveva tassativamente proibito di tornare alla corte del grande magghid di Mezritch, Dov Ber, di cui voleva diventare discepolo.
In quel tempo, le idee e le pratiche dette ‘chassidiche’ erano ancora giudicate alla stregua di stranezze, se non di vere e proprie devianze religiose, e quindi pericolose, da scoraggiare. Ma la personalità di Levi Itzchaq, stando alle agiografie che fiorirono abbondanti su di lui, non era certo tale da lasciarsi bloccare nel suoi propositi; vinse la sfida con il suocero, si recò di nuovo alla corte di Mezritch e lì apprese la dottrina fondamentale della sua vita: che l’ebreo onesto, giusto e devoto – il vero chassid, che al contempo è un vero tzaddiq – non teme di sfidare persino il Cielo pur di aiutare e intercedere a favore dei più poveri, di chi soffre ingiustamente e di chi, lontano o perso, va riscattato.
Si legge in una recente ricostruzione storica: «La memoria chassidica di Levi Itzchaq, che divenne noto come il Berditchever rebbe, è quella di una figura eroica, un ‘difensore di Israele’, un uomo che amava la gente semplice e che non esitava a scendere in lite, in contesa [riv, in ebraico] con lo stesso Iddio benedetto al fine di difendere e proteggere gli ebrei del suo tempo che fossero minacciati o in pericolo». Per questo egli è noto anche, in yiddish, come Derbaremdiggher ovvero ‘il compassionevole’. In realtà gli storici ammettono di avere ben poca evidenza delle sue reali attività come rabbino e di faticare a distinguere quel che è storia da quel che è leggenda. Nel 1776 lo troviamo a capo della comunità (non chassidica) di Pinsk, dove rimase fino al 1785 allorché si trasferì a Berditchev, cittadina nella quale adottò lo stile di preghiera dei chassidim ma senza crearsi una ‘corte chassidica’ e senza neppure coltivare dei discepoli in proprio.
Ciò considerato, e senza togliere importanza agli scritti su di lui – anche i testi agiografici sono ‘storici’ in quanto documenti della ricezione e dell’interpretazione di un maestro – sono invero gli scritti di lui, i suoi sermoni e le sue note manoscritte, ciò che più impressiona, dato che non erano molti i rebbe, negli ultimi anni del XVIII secolo, che scrivevano di proprio pugno. Infatti, è ragionevole pensare che abbia svolto un ruolo di scriba, o di segretario, anche alla corte di Mezritch (appunto dove il suocero voleva proibirgli di andare). Di mano di Levi Itzchaq ci è infatti pervenuta una raccolta di insegnamenti, omelie e commenti alle parashot della Torà dal titolo Qedushat Levi, stampata in parte già nel 1798 e poi, completata, nel 1811 e da allora ripubblicata in continuazione, fino alle edizioni tradotte e commentate negli ultimi decenni (l’ultima in inglese del 2009, in 3 volumi, a cura di Elyahu Munk). L’importanza di quest’opera, per una piena comprensione del movimento chassidico, sta nel fatto che in essa troviamo il riflesso diretto di alcune dottrine dello stesso Dov Ber, il grande magghid a cui è attribuita una prima teorizzazione e organizzazione del movimento stesso.
È nella Qedushat Levi che rinveniamo l’idea che lo tzaddiq più grande non è quello che compie la più intensa devequt o unione mistica con il Divino; piuttosto è colui che più insistentemente intercede presso il Signore per i i bisogni, anche materiali, del singolo ebreo che soffre, è perseguitato o in miseria. Secondo Levi Itzchaq, il Cielo stesso ha dato allo tzaddiq, al leader spirituale di una comunità chassidica, il potere di cambiare il corso delle cose, persino di fare miracoli. In tal senso questo maestro si inserisce forse più nel solco ‘popolare’ del Ba‘al Shem Tov che in quello ‘elitario’ di Dov Ber. Inoltre, ogni ebreo può diventare uno tzaddiq, come del resto insegnava Itzchaq Luria, il qabblista che sta a monte di tutta la mistica chassidica. Ecco uno dei detti favoriti dal rebbe di Berditchev: «Il Santo benedetto decreta e lo tzaddiq annulla [quel decreto]». Sebbene si tratti di una citazione del Talmud Babilonese (Mo‘ed Qatan 16b), l’aforisma è un concentrato di teologia rabbinica, perché rimarca ad un tempo che ‘tutto è nelle mani del Cielo’ e alla fin fine Iddio regna e decreta quel che vuole; nondimeno, ‘il permesso è dato’ all’uomo, che ne sia degno, di modificare il decreto divino con la preghiera e le proprie azioni, e ciò è quel che deve o dovrebbe fare un vero leader spirituale, un rebbe che sia tzaddiq, immedesimandosi con i bisogni della sua gente e persino, se necessario, ‘sfidando il Cielo’, specie nella cornice solenne di Yom ha-kippurim. Kippurim al plurale, sì, perché in quel giorno il perdono va in due direzioni, ché forse anche Dio ha qualcosa di cui farsi perdonare… Una delle sue preghiere era: «Signore del mondo, quando un ebreo vede dei tefillin caduti a terra, si precipita a raccoglierli, li bacia e li abbraccia e li mette al sicuro! Non è forse scritto che noi siamo i Tuoi tefillin? Perché non ci sollevi e non ci proteggi?». Soltanto in questo contesto di estrema fiducia religiosa si spiegano gli innumerevoli racconti riferiti a Levi Itzchaq come ‘difensore di Israele’ dinanzi a Iddio benedetto.
Di più, tale libertà di parlare senza scrupoli ai più alti livelli ha un corrispettivo nella grande libertà che questo maestro ammette e prescrive nell’interpretazione delle Scritture sacre, poiché, a suo giudizio, ogni generazione di tzaddiqim ha il dovere di offrire nuove letture e nuovi stimoli spirituali a tutto Israele. Lungi dal rappresentare un conservatorismo halakhico chiuso su se stesso, questo originale esponente del chassidismo della prima ora è un sostenitore del dovere di adeguare l’halakhà, in tempi sempre mutevoli e in forza di quella libertà interpretativa, ai bisogni del popolo ebraico. «Quella libertà esegetica – spiega lo storico David Biale – è possibile poiché le parole della Torà posseggono un’infinita molteplicità di significati diversi e di nuove idee, ma anche poiché Iddio stesso accetta le decisioni degli tzaddiqim qui in terra».
In questa sorprendente teologia dell’interpretazione, Levi Itzchaq di Berditchev ha così tentato di bilanciare tradizione e creatività. Infine, va ricordata la sua ferma fede nella venuta del messia. Elie Wiesel narra di Levi Itzcahaq: mentre si redigeva il contratto di fidanzamento per il di lui figlio, lo scriba stava per scrivere come luogo la città di Berditchev, ma il rebbe lo fermò arrabbiato: «Perché Berditchev? Scrivi piuttosto: ‘Il matrimonio avrà luogo a Gerusalemme’. Solo se il messia non sarà ancora arrivato, allora il matrimonio si celebrerà in Berditchev!».
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma